L’altalena.

Sotto una luce al neon fredda come questa stagione, l’immaginazione spazia dagli sterili confini dell’ufficio agli scenari nebulosi dell’avvenire. Come potrei desiderare di fare l’amore soltanto durante l’ora d’aria delle uscite programmate, fuori dalle mura di un ghetto?

La voce del mio interlocutore mi riporta alla realtà: “Ha mai pensato all’istituzionalizzazione?” mi domanda con voce pacata e gentile il direttore del Distretto Sanitario. Se ne sta seduto su una sedia foderata di pelle nera, e mi guarda attraverso le spesse lenti degli occhiali che indossa con eleganza. Ha lineamenti piacevoli, un che di “bello” che si adatta alla mutevolezza delle circostanze e che non stride con le espressioni austere, né con la morbidezza del sorriso.

cop-1015984_1920Mi sta chiedendo se io abbia mai pensato a trascorrere la vita in un istituto per la lungodegenza. Un istituto per persone non autosufficienti. E aggiunge: “Sarebbe più semplice…” Mi parla con naturalezza e la voce fa eco alla sicumera di chi è abituato ad avere l’ultima parola su tutto; fiera – com’è giusto sia – del potere che detiene. Ha accavallato le gambe e appoggiato con solennità le mani sulle ginocchia. Nella stanza angusta, dove una commissione sta soppesando il mio futuro sui piatti di una bilancia, decidendone il valore, monetizzandolo, risuona quel suo: “Sarebbe tutto più semplice.”

No, non sarebbe più semplice! Non lo sarebbe per me che finirei con l’usare la toilette ad orari prestabiliti e quando il personale di assistenza è disponibile, anziché quando il mio intestino e la mia vescica reclamano il sacrosanto diritto di precedenza su qualsivoglia urgenza altrui. E non lo sarebbe per il nostro paese che, invece di finanziare l’indipendenza di una sua cittadina, si ritroverebbe a pagare più del triplo per il confinamento della stessa in un ospizio. Sì, perché di un ospizio si tratta, anche se ora va di moda il termine Rsa, che una mente candida potrebbe addirittura pensare sia l’acronimo di Royal Scottish Academy, finendo con il credere che di una borsa di studio si stia parlando.

Direi che “semplice” non è affatto l’aggettivo appropriato. A meno che la comodità di servire pasti ogni giorno alla stessa ora, con la ripetitività di una catena di montaggio, sia considerato più semplice dell’assecondare il desiderio di mangiare quando si ha fame, anziché quando altri decidono che tu debba mangiare.O che spegnere le luci nell’intero reparto sia ritenuto più proficuo di quell’individuale andare a letto quando si ha sonno che è, a tutti gli effetti, sinonimo di libertà.

Poiché “semplice” sta all’istituzionalizzazione come il rosso e il verde stanno al daltonismo. Non riesco a concepire una vita da reclusa. Non posso mutilare la mia immaginazione costringendola ad assopirsi entro i confini di una cella. E, tantomeno, voglio dover chiamare quella cella, “casa”.

Non posso pensare che farei l’amore soltanto durante l’ora d’aria delle uscite programmate, o sopra un lettino con le sponde e il materasso antidecubito che ondeggia come un veliero tra i marosi. O nelle palestre deserte, nelle silenziose notti geriatriche, come si faceva ai tempi dei ricoveri per la riabilitazione, negli anni d’oro della mia adolescenza. O, magari, sopra il carrello dei medicinali, tra un lassativo e una confezione di garze sterili, o appesa al sollevatore dall’aspetto e funzione simile a quella del più noto aggeggio ludico chiamato “altalena dell’amore” o Love Swing per gli amanti anglofoni. Oppure vestita da Oss dopo aver rubato una mascherina chirurgica e un paio di guanti monouso in lattice, o forse dentro la vasca per l’idroterapia, sostenuta dall’acqua con la minore forza di gravità che rende più facili i movimenti…

Hmm, queste fantasie stanno diventando allettanti! Quasi quasi chiedo che mi ricoverino…

10 novembre 2015

D’accordo, ragioniamo. Se questo letto potesse parlare, bestemmierebbe! E non lo farebbe con il leggendario turpiloquio dei portuali, no! Bestemmierebbe con grazia, scaraventando imprecazioni dai dolci effluvi di lenzuola fresche di bucato e soffici come guanciali, lungo le diagonali della stanza. Imprecherebbe per le unghie della gatta che graffiano il materasso, per le geometrie dei corpi che non sono mai gli stessi perché non si è pronti ad assumersi l’impegno di restare a lungo nello stesso posto, tra le stesse braccia. Bestemmierebbe per le pieghe in ombra sotto la biancheria a catafascio, in attesa che giungano mani a riordinare, per le scuse che risuonano come inganni,  subdoli appigli che tralasciano ingenuamente i più semplici dettagli.

Lui mi volta su un fianco e mi stringe in un abbraccio come a fermare il tempo. Confesso: <<Sei il regalo più prezioso che ho ricevuto!>>

<<Per gli anni che tu conti al rovescio?>>

<<Sì, anche. Ma più per gli anni che non contano.>>

Non ricordo un novembre caldo e assolato come questo. Il clima è quello idoneo alle performance amorose del vicinato, lasciate intendere dai sospiri che oltrepassano la finestra aperta, nelle prime ore del pomeriggio, e dai richiami al cane che giungono languidi dalla camera da letto. È il clima perfetto per vedere apparire sul balcone l’inquilino del piano di sopra, avido di chiacchiere, un cecchino appostato dietro i gerani appassiti, tra la ringhiera e le fioriere, in attesa di vedere comparire un volto noto nei dintorni per attaccarci un bottone interminabile. Questo novembre estivo è ideale per udire l’ira della dirimpettaia che trafigge il marito con coloriti insulti per l’eccessivo sale nella pasta al pesto, e per vedere poi il povero Cristo vagare come un’anima in pena da una stanza all’altra con il volto costernato e in religioso silenzio.

È la temperatura adatta alla resurrezione delle zanzare, credute morte e sepolte nel carnaio di Ognissanti e, invece, miracolosamente vive e vegete. E bastarde.