Piove da questa mattina, dai comignoli s’innalza un fumo grigio che ha le stesse sfumature del cielo. Nessun rumore, oltre allo stillicidio sui vetri delle finestre. La sensazione di essere sola fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, ha lasciato spazio alla mestizia. Getto le chiavi di casa sullo scrittoio, accanto al notebook e alla tazza con l’infuso di ananas e pesca, e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. In un attimo non indosso più i miei panni e al muro affrescato di fronte a me antepongo il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.
“Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi…” riecheggiano le sue parole nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo dell’estate, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere amata. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni mia ricerca: qualcuno che si prenda cura di me e lo faccia per amore e non per lavoro.
Era stato, per un attimo, come se stessi per venire al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così ho iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che reggeva il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…
“Ti porterò al largo!” aveva promesso: “Sto pensando a come prenderti.”
Allora a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal ventre fino alla gola, un’angoscia soffocante che riecheggiava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale premura non fosse stata altro che un modo per sentirsi il paladino di una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un volo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati.
Come dar loro torto? Il solo vincolo che mi tiene legata al mio corpo è l’impossibilità di sfuggirgli.
Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima.
Nella vita anche io ho viaggiato. Non quanto avrei voluto, ma ho viaggiato; a scegliere l’itinerario è stato, fin dall’infanzia lo spirito nomade che arde dentro questo mio corpo quasi immobile. E viaggiando ho voluto sperimentare tragitti talvolta impensabili e sovente preclusi, confidando in quell’anima irrequieta che non si è mai accontentata della cella organica in cui avrebbe dovuto vivere se non fosse stata più forte del corpo che la incarnava. E ho confidato, altresì, nella sorte, augurandomi di incontrare un corpo capace di comprendere quello che, potendo, avrebbe fatto il mio.
Quand’è che ho imparato a mettere il mio corpo nelle mani di un altro, non lo ricordo. Ciò che è rimasto impresso nella memoria è l’addestramento per riuscire a farlo. Anni di prove e di sconfitte. Per essere capace di metterti nelle mani di un altro devi cominciare a sentire il suo corpo. Devi entrare in quel corpo, amarlo come fosse il tuo. Ogni mano che ti tocca trasmette una sensazione mai sperimentata prima.
Le ricordo tutte. Le mani che mi hanno aiutata o che hanno preteso di farlo, le mani che mi hanno immolata, quelle che mi hanno resa vittima e quelle che mi hanno resa madre; le mani che mi hanno sollevata e quelle che hanno inflitto alla mia carne la geometria di una stigmate, quelle che ho amato e quelle che, per quanto piegate alla soddisfazione del mio piacere, non ho mai avuto.
Le ricordo tutte e ricordo di aver finto che fossero mie, che fossero più vicine di quello che erano, anche se erano già conficcate nella carne o affondate nei miei umori; ho finto che fossero per sempre e che, affrancate dal giogo del tempo, non avrei mai dovuto dimenticarle, né sostituirle. È stato così anche per le mie mani, quando ne ho visto la forza venire meno fino a dissolversi come la pittura dentro il solvente. Ho finto che le avrei ritrovate, che nulla era perso per sempre…