Inshallah

Ci sono gesti che fanno riflettere. Quando trascorro una notte “speciale”, ad esempio, ed Hanane – la mia assistente – mi prepara con una tale delicatezza che pare un esercizio estetico: adagia con cura i miei capelli sul cuscino, ne allunga qualche ciocca sulle spalle, accende le candele e, infine, dà un ultimo ritocco alla lingerie come fosse il compimento di un’opera d’arte. Un’arte rasoterra – certo – nutrita dai sottili equilibri tra le simmetrie e gli estetismi, dalla carne più che dallo spirito; un’arte che è più un mestiere, e che richiede l’uso delle mani, che non si accontenta di mostrare ma abbisogna di toccare, di sentire sotto le dita.

Quando verrà il momento
Nella follia  catturerò il firmamento e lambirò le nubi
Prenderò in prestito la bufera  lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
E me ne andrò.

Joumana Haddad

In quei momenti la mia scarsa mobilità passa in secondo piano, non è che un’appendice. Hanane distende le pieghe sulle lenzuola fresche di bucato, poi appoggia al fondo del letto la coperta ripiegata con cura. Nella stanza l’odore degli incensi avviluppa l’effluvio delle spezie usate per la cena: cardamomo, coriandolo, curcuma…

Mi pare di aver sbagliato nel frequente tentativo di dare un senso all’immobilità a seguire l’indicazione ieratica e gelida delle statue. Avrei dovuto, invece, seguire un’altra direzione, quella che la statua non incarna, quel verso, quella traiettoria che scorre dal gelo inorganico della scultura al calore animale del sangue. Hanane mi prepara come fossi una sposa, non accenna al benché minimo raffronto con la materia inorganica. “La scultura è la meno carnale delle arti; la sfida che propone deve affidarsi al freddo…” suggerisce l’amico Dario.
Se nella vita avessi seguito ciò che mi veniva suggerito, forse, avrei imparato più in fretta a non confondere il bisogno delle mani altrui con il rimettersi alla loro volontà. Invece, c’è voluto tempo.
Ho guardato, non senza un sentimento di ripulsa, dritto dentro quel crogiolo di elementi intaccato dal tempo, ho guardato con occhi da voyeur quella mistura infetta dove carne e larve si spartivano il nutrimento; ci ho conficcato dentro lo sguardo, come a mirare il baricentro, per dare l’illusione alla pupilla di poter fissare un insospettabile equilibrio. Ma la mente ha sempre desiderato andare altrove, sicché agli occhi non è rimasto altro che rispecchiarne l’irrequietezza di zingara, il tormento interiore che la faceva sentire troppo stretta in un luogo e in un corpo. Poiché c’è un limite alla resistenza umana, una volta raggiunto si finisce col fermarsi definitivamente o si cerca un altrove in cui reinventare la propria vita.
Ora, sulla soglia di casa lo zaino invoca nuovamente la partenza…

Un bel tacer

“Un bel tacer non fu mai scritto.” mi sovviene mentre attendo che svanisca il sonno, esausta, al risveglio dopo una giornata che è stata tutto fuorché ordinaria.
Un bel tacer…Ma che cazzo me ne frega di tacere se tutto ciò che voglio è scrivere? Scrivere su ogni centimetro di epidermide, su ogni brandello di carta, sui muri, sui margini delle pagine, sui Testi Sacri, sui delicati incastri delle sinapsi…

È l’unica volontà conservata integra dagli anni dell’infanzia; la sola che non si sia trasformata in un “avrei voluto”.
Voglio scrivere dello scroscio della pioggia giunto a sorpresa nel tardo pomeriggio subito dopo il bagliore del lampo dentro la stanza in penombra. E voglio scrivere della mia natura snaturata, spuria, delle sue pendenze, e della nausea che fa eco al piacere e alla fine si confonde con esso.
“Ho viaggiato poco” confida con una punta di rammarico.
“Io, invece, ho viaggiato moltissimo benché spesso ferma in un luogo.”
Fa un cenno al mio sguardo, all’iride scura che quando fissa un punto di fronte a sé si spoglia della dolcezza e risveglia una bestia assopita dentro.
“C’è una parte di te cupa come il colore degli occhi ed un’altra limpida, rasserenante, così diversa…” suggerisce come a rispondere ad un proprio dissidio interiore ed io gli accordo il piacere di avere l’ultima parola, lascio morire il discorso.
Voglio scrivere del paese in cui sono nata, della sua meravigliosa antichità che, sì, è retriva e bigotta ma pullula di storia e continua a dar voce ai morti.

“Ti faccio un po’ paura?” chiedo in attesa più di una conferma che di un’affermazione, e con una sola ragione nella testa e tra le cosce.
Ma, intanto, un’euforia densa e pulsante distoglie la mia attenzione dalla risposta. “Un cazzo. Non me ne frega un cazzo.”
Allora sorride.
Voglio scrivere del giorno che si è spento con un copioso scroscio di pioggia, del cielo aldilà del vetro. Del cielo che si è fatto cupo come l’iride e ha aizzato la bestia e fomentato la voglia di canticchiare una canzone di quando ero bambina.