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I don’t care

Talvolta sento l’esigenza di sfuggire alla città e di camminare – che detto da me, suona alquanto ironico e potrebbe finanche apparire irriverente a qualche anima candida, politicamente corretta, che anziché storpia mi chiama diversamente abile. Ma tant’è che camminare lontano dalla fiumana, in questi momenti di inquietudine, è un richiamo imperativo. E alla necessità di passi, segue intimamente quella di bosco. La voglia di farsi sorprendere da un raggio di sole che penetra tra il fitto fogliame, di inseguire l’orizzonte consapevoli che l’obiettivo non è raggiungerlo, bensì continuare a rincorrerlo, il sentore di umidità ancestrale, l’odore di erba e sterpi arse in qualche vicina radura, liberano i pensieri e li purificano in modo analogo al bicchiere di rum e cola che adesso mi attende, sullo scrittoio, accanto al notebook.

La mia storia è fitta di ombre. Ma a produrre l’ombra è sempre una sorgente di luce.

Una volta prese le distanze dalla scenografia urbana, la mente ramifica tra le fronde e quel lacerto di cuore che mi porto appresso rattoppato e disilluso. Sicché, nutrito da questa maledetta linfa dalla natura ibrida, semi-vegetale ma sanguigna, il pensiero ritorna a quel crocevia solcato dai passi dei viandanti che è la mia vita. All’amore che credevo di aver ghermito ma che si è consumato, giorno dopo giorno, fino a non essere più abbastanza. Occorre essere chiari: ho sempre saputo di essere stata amata, ciononostante mi è parso che ad essere amato, in qualche modo, sia stato più il corpo che lo spirito.

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Lei non è me…Ed io?

Sovente nel raccontare di me e della mia vita indipendente dimentico di essere cresciuta con una malattia neuromuscolare e di non essermene mai affrancata in tutti questi anni.

Certo, l’Amiotrofia Spinale è parte di me, tuttavia non l’ho mai vista come un’appendice, né tantomeno come l’integrazione tra corpo e morbo. No, non è mai stata me. L’ho sempre vista più come un alter ego, anziché come l’ideale gemello siamese a cui sono unita dalla nascita. Uno sdoppiamento.

Perché c‘è una Tania malata e c’è una Tania che dimentica di esserlo. Quest’ultima vive da sola, aiutata da un’assistente personale; progetta, si arrabatta per sbarcare il lunario, scrive per passione e per pagare le spese condominiali, coffee-690421_1920viaggia per sentirsi libera e si getta a capofitto nella fiumana per diletto e per curiosità. L’altra, quella con il gene mutato, trascorre settimane chiusa in casa per guarire da un’infezione respiratoria, usa una macchina per tossire e un’altra per la ginnastica respiratoria; perde peso ad ogni influenza e sa che la vita non è mai un percorso dato per scontato e che tutto può cambiare con la stessa rapidità di uno sbattere di ciglia. A seconda delle circostanze, una è dominante, l’altra recessiva.

C’è un momento in cui le due s’incontrano. Una frazione di secondo. E non se ne accorgono. Credo succeda perché sono l’una l’immagine speculare dell’altra e quando si osservano, ciascuna crede di vedere se stessa. Per poter conservare memoria dell’altra devono, in qualche modo, opporsi. Pur esistendo contemporaneamente, seguendosi alla stregua di un’ombra. Ci sono momenti in cui mi ricordo di avere una compagna di viaggio simbiotica, ma sono momenti che non amo ricordare.paper-dolls-14611_640

Perciò preferisco pensare a similitudini più edificanti: all’iride che dà le giuste sfumature allo sguardo, alla somiglianza tra l’impiegata comunale e Stalin – più per i baffi che per il dispotismo – alle gocce d’acqua; al mio culo e al resto del mio corpo sui piatti di una bilancia; alle ciliegie dentro un canestro, alla somiglianza tra la pazzia e la creatività; alle ore della noia, ai discorsi ridondanti, alle mani…