Talvolta sento l’esigenza di sfuggire alla città e di camminare – che detto da me, suona alquanto ironico e potrebbe finanche apparire irriverente a qualche anima candida, politicamente corretta, che anziché storpia mi chiama diversamente abile. Ma tant’è che camminare lontano dalla fiumana, in questi momenti di inquietudine, è un richiamo imperativo. E alla necessità di passi, segue intimamente quella di bosco. La voglia di farsi sorprendere da un raggio di sole che penetra tra il fitto fogliame, di inseguire l’orizzonte consapevoli che l’obiettivo non è raggiungerlo, bensì continuare a rincorrerlo, il sentore di umidità ancestrale, l’odore di erba e sterpi arse in qualche vicina radura, liberano i pensieri e li purificano in modo analogo al bicchiere di rum e cola che adesso mi attende, sullo scrittoio, accanto al notebook.
La mia storia è fitta di ombre. Ma a produrre l’ombra è sempre una sorgente di luce.
Una volta prese le distanze dalla scenografia urbana, la mente ramifica tra le fronde e quel lacerto di cuore che mi porto appresso rattoppato e disilluso. Sicché, nutrito da questa maledetta linfa dalla natura ibrida, semi-vegetale ma sanguigna, il pensiero ritorna a quel crocevia solcato dai passi dei viandanti che è la mia vita. All’amore che credevo di aver ghermito ma che si è consumato, giorno dopo giorno, fino a non essere più abbastanza. Occorre essere chiari: ho sempre saputo di essere stata amata, ciononostante mi è parso che ad essere amato, in qualche modo, sia stato più il corpo che lo spirito.