Lei non è me…Ed io?

Sovente nel raccontare di me e della mia vita indipendente dimentico di essere cresciuta con una malattia neuromuscolare e di non essermene mai affrancata in tutti questi anni.

Certo, l’Amiotrofia Spinale è parte di me, tuttavia non l’ho mai vista come un’appendice, né tantomeno come l’integrazione tra corpo e morbo. No, non è mai stata me. L’ho sempre vista più come un alter ego, anziché come l’ideale gemello siamese a cui sono unita dalla nascita. Uno sdoppiamento.

Perché c‘è una Tania malata e c’è una Tania che dimentica di esserlo. Quest’ultima vive da sola, aiutata da un’assistente personale; progetta, si arrabatta per sbarcare il lunario, scrive per passione e per pagare le spese condominiali, coffee-690421_1920viaggia per sentirsi libera e si getta a capofitto nella fiumana per diletto e per curiosità. L’altra, quella con il gene mutato, trascorre settimane chiusa in casa per guarire da un’infezione respiratoria, usa una macchina per tossire e un’altra per la ginnastica respiratoria; perde peso ad ogni influenza e sa che la vita non è mai un percorso dato per scontato e che tutto può cambiare con la stessa rapidità di uno sbattere di ciglia. A seconda delle circostanze, una è dominante, l’altra recessiva.

C’è un momento in cui le due s’incontrano. Una frazione di secondo. E non se ne accorgono. Credo succeda perché sono l’una l’immagine speculare dell’altra e quando si osservano, ciascuna crede di vedere se stessa. Per poter conservare memoria dell’altra devono, in qualche modo, opporsi. Pur esistendo contemporaneamente, seguendosi alla stregua di un’ombra. Ci sono momenti in cui mi ricordo di avere una compagna di viaggio simbiotica, ma sono momenti che non amo ricordare.paper-dolls-14611_640

Perciò preferisco pensare a similitudini più edificanti: all’iride che dà le giuste sfumature allo sguardo, alla somiglianza tra l’impiegata comunale e Stalin – più per i baffi che per il dispotismo – alle gocce d’acqua; al mio culo e al resto del mio corpo sui piatti di una bilancia; alle ciliegie dentro un canestro, alla somiglianza tra la pazzia e la creatività; alle ore della noia, ai discorsi ridondanti, alle mani…

Nuda Pelle

           Nella contemplazione dell’immobilità, germogliava il seme creativo. Dalle linee imperiture che distinguono le forme e danno alle figure un nome, segno dopo segno affiorava l’idea del movimento. Si faceva strada così il tacito sentore che il dipinto non fosse che il tramite; anima che tramuta le forme intellegibili in materia, l’unicum dell’essere e del pensiero. Erano le tinte scure a impreziosire la stanza, il nero che nella pittura non è mai nero.

Il peso delle ginocchia spinge a terra, c’è un accasciarsi sulle proprie gambe che preme. È la condizione umana di vivere innumerevoli viaggi dentro una stanza. Passo dopo passo.

Così la condizione favorita per assaporarne l’intimità era la penombra. Quando il crepuscolo silenziava le luci erubescenti del tramonto e lunghe zone d’oscurità si ramificavano sul pavimento e sui muri. Dal soffitto affioravano sentori di buio; diagonali di nero occludevano gli angoli, poi si facevano avanti come non temessero più gli spazi aperti. L’assedio si faceva più stretto, non restavano che sporadiche vie di fuga sotto le porte, attraverso le serrature, dalle finestre. Il contorno cinabro delle Alpi si spegneva. Il cielo per poco sarebbe stato ancora sfondo, poi si sarebbe uniformato all’orizzonte.

Lorenzo si era avvicinato a lei e poteva sentirne il profumo vanigliato del balsamo per capelli. Lei teneva gli occhi fissi sul pavimento, in segno di sottomissione. Piaceva ad entrambi quel gioco mascherato da convenzione: Irina gli dava tutta se stessa, metteva nelle sue mani la propria volontà. Voleva essere un dipinto, tracce di pittura, un segno sulla tela privo di coscienza.

In casa l’inconfondibile odore della sua presenza. Veniva a farle visita ogni giorno, eccetto i sabati e le domeniche che riservava alla moglie.

Voleva essere dipinta, capovolta, dissanguata, purgata dell’anima, resa bambola. Il sentirsi sdoppiata tra realtà e immaginazione la faceva sentire come una bambina con una bambola tra le mani, mentre gioca a denudarla, a farle compiere i primi passi solitari, a interagire con un mondo per giganti, dentro un corpo da donna e con lo spirito di un’infante; mentre prova per la prima volta a immaginarsi adulta, a baciare l’aria e poi quella bocca di plastica, poco importa se maschio o femmina, in fondo è pur sempre un bacio, pur sempre una bocca, pur sempre un gioco.

Le sensazioni enfatizzate dall’emotività rimandavano sentore di arti avvinghiati gli uni agli altri, tepore di sangue, umidi secreti vaginali e saliva, odore di pelle, di capelli.Il corpo tornava ad essere nulla, un pensiero in potenza, forse, avviluppato al codice genetico di tenaci e inconsapevoli vettori di vita.

«Sii anche tu bambola. Giochiamo con l’età che sconvolge i piani al pensiero lineare dell’esistenza, che segna e incide il concetto amorfo di vita, che si fa beffe dell’identità peritura e fa di noi persone, semplici maschere. Mutevoli, inconsistenti, vane» aveva sussurrato all’orecchio di lui e subito ne aveva avvertito l’eccitazione. Egli l’aveva Nuda-pelle-di-Tania-Bocchino_su_vertical_dynpresa in braccio e stretta con forza prima di condurla sul letto, sotto La Morfinomane di Vittorio Corcos. Forse era la stanchezza che appesantiva gli arti a fargli preferire il materasso alla durezza del fratino, o forse era dolcezza, una dolcezza imprevista che gli suscitava la sola vista di lei.

Lei stava in silenzio, un silenzio interrotto da brevi gemiti. Sentirsi intrappolata con tale veemenza sotto il corpo di lui le dava piacere. La eccitava l’idea che il corpo potesse divenire un’opera d’arte. E vivere anche dopo la morte. Alla mercé di spettatori sgomenti. «Hai mai pensato alla serenità?» egli aveva domandato. «Sì, innumerevoli volte».

estratto da Nuda Pelle

Se il sesso svelasse l’Universo?

Torno a scrivere su queste pagine dopo un’assenza di qualche mese. Non vi racconterò dei motivi della mia lontananza, né delle cicatrici che ancora conservo.

Vi svelerò, invece, di aver sperimentato la mia vena narrativa e l’intimità delle mie visioni erotiche. E non vi terrò nascosto, nemmeno, di averlo fatto su Loveability.it, sito web gestito dall’amico Maximiliano Ulivieri e che forse molti di voi conoscono.

La scrittura mi è stata d’aiuto in molteplici circostanze; la penna ha scandagliato gli abissi del mio spirito, più di quanto avrebbe fatto qualsiasi altra forma di contemplazione e di analisi.

Pertanto, desidero metaforicamente battezzare il mio riavvicinamento al blog e il sodalizio con Loveability, proponendovi lo scritto che più ho a cuore.


“E se il segreto dell’Universo avesse a che fare con il sesso?” ci si domanda nel lungometraggio dedicato alla vita dell’astrofisico Stephen Hawking. Considerato il flusso di eventi che ha segnato la mia vita, potrei affermare di essermelo chiesto anche io, più di una volta.

Talvolta salgo all’Osservatorio astronomico, lungo la strada ombrosa che s’inerpica sulla collina tra le abitazioni lussuose e il fogliame fitto. Mi sento un pellegrino che risale la china per raggiungere l’eremo. E, curva dopo curva, mentre si cominciano a intravedere le cupole dell’Osservatorio, il pensiero dell’intimità sperimentata con il cielo si trasforma in una fissazione: dal creato al Creatore, dal Big Bang al coito, l’origine del Tutto.

Vi ho raccontato degli anni maledetti, dell’infanzia scivolata fuori dal sesso acerbo di bambina e lasciata maturare tra le cosce, come un aspro gheriglio di noce ricoperto dal mallo o come un feto ravvolto nella placenta. L’incubazione è, in fondo, crescita. Quel tempo è lontano ormai, eppure ne ricordo il tremore di uccello implume, il miraggio e la seduzione del volo, la frattura irregolare sul guscio dopo la schiusa, l’albume mischiato al sangue che ha battezzato il mio ingresso nell’adolescenza. Il primo sangue. Il dolore che ha aperto la strada al piacere. Come la marea, la prima mestruazione ha riempito il ventre di fluido tepore e poi lo ha riversato fuori dalle carni, in quel fazzoletto di continente sottomesso all’influenza della luna. Il sangue scandiva i mesi ed io mi avvicinavo all’età adulta con passi lunghi e svelti.

Sempre in quegli anni, ho scoperto l’ascendente che esercitavo su taluni, uomini perlopiù, un oscuro, misterioso interesse risvegliato come per gioco. Uno di loro, in particolare, mi sovviene ogni qualvolta ripenso a quell’epoca antesignana. Lo vedevo un paio di volte a settimana, sempre alla stessa ora. La mia famiglia lo aveva assunto per aiutarmi a tenere allenati gli scarni muscoli già indeboliti dalla malattia. I trattamenti duravano sempre più del previsto, e dalla porta chiusa della stanza in cui lui non voleva ci disturbassero, si udiva solo un persistente, denso silenzio. Nessuno ha mai osato violare quel divieto, oltrepassare l’uscio. Nessuno ha mai nemmeno indugiato dietro la porta, origliato, atteso che giungesse un invito ad entrare o, semplicemente, che si riuscissero a distinguere rumori e voci all’interno della stanza. table-443803_1920

Perché la stanza era un luogo sacro, il tempio destinato a un culto, uno spazio consacrato al sacrificio. Sopra il grande tavolo su cui lui mi faceva sdraiare, il mio corpo bruciava come l’incenso dentro il turibolo. E sempre sulla dura superficie del tavolo in legno di ciliegio, il sottile sigillo alla mia inviolabilità si era spezzato come l’ostia tra il palato e la lingua. Ricordo che al principio ho provato fastidio, un’avversione nauseante al divenire adulta.

Sopra il tavolo era sempre adagiata una lunga tovaglia bianca di lino: ne ricordo il tocco fresco sulle cosce, e ricordo che quando lui le dischiudeva, la pelle sfregava la stoffa ruvida e il fastidio avvertito sull’epidermide si confondeva con quello percepito dalla mente. E ricordo il giorno in cui, dopo aver sollevato la tovaglia in modo da non sporcarla, mi aveva trascinata verso di sé sulla superficie fredda del tavolo, prima di spingere la mano ad esplorare la mia verginità.

“Matilde, nessuno capirebbe. Resti il nostro segrecandle-110724to!” Confidando nel mio silenzio aveva tentato una carezza, come se questo fosse stato sufficiente a farci sentire complici. Lo aveva fatto con vergogna, tentennante. Poi era uscito dalla stanza e dalla mia vita. Avevo tredici anni e, in modo del tutto inatteso, stavo scoprendo il potere del corpo. Del mio corpo, impigliato nel groviglio esistenziale che mai nessuno, fino a quel momento, era mai riuscito a dipanare.

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