Le seghe di Alessandro.

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. Solo che, certe volte la mia non è propriamente voglia di essere dentro a qualcuno, bensì è più voglia di avere dentro qualcuno. Le romantiche paladine della maternità spengano all’istante quel baluginio commosso della pupilla che compare ogniqualvolta annusano nell’aere il desiderio di un figlio, si ricompongano: la mia è solo voglia di cazzo. E non ci intravedano alcunché di sentimentale, non ho intenzione di personificare un pene mettendolo metaforicamente in sella a un purosangue ed equipaggiandolo dell’armatura che spetta ai nobili cavalieri. Ho solo voglia di qualcosa che mi si muova dentro e che nulla abbia a che vedere con l’amore. Ché a forza di sentir le viscere aggrovigliarsi per le emozioni m’è venuta voglia di sentirmele sbattere unicamente per il sesso.

L’amore non c’entra nulla, giacché l’amore che arriva è sempre guercio e monco che a gnu-161341_1280guardarlo ti vien pena per lui e ti sovviene di concedergli la precedenza in ogni dove, finanche alle casse del supermercato. E a forza di starci appresso, di cercarlo negli occhi della prima bestia in fregola che tra le lenzuola ha, sì, promesso le stelle ma che è sparita alle prime luci dell’alba, s’è rivelato un feticcio, un ammennicolo oggetto di ammirazione fanatica. Allora, lungi dal finire miseramente a peccare d’idolatria per una carcassa bovina sifilitica anziché per un vitello d’oro – il peccato va compiuto come dio comanda, altrimenti l’offende – del toro meglio venerar solo le pudende.

“Sicché Aristotele prescrisse ad Alessandro di trastullare il membro?” domanda divertito. Poi prosegue: “Certo che quel Lazzarin è proprio un genio! Io non riuscirei a formulare mezza frase usando parole che iniziano tutte con la stessa lettera, figuriamoci scrivere un intero racconto…” Allunga una mano per toccarsi la fronte: “Come s’intitola il tautogramma? Uhm, ecco…sì: affaticamento all’avambraccio!

“Adesso argomenteremo attorno agli effetti – affermò Aristotele avvicinandosi adagio ad Alessandro. Allenati, abituati all’autoerotismo…*” cito, mentre la sua mano è già scivolata dalla fronte alle cosce.

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono sundress-336590_1920ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie. Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.

“All’amicizia aggiungiamoci attrazione: avvertiremo appetiti ancestrali, aspireremo ad accoppiarci.*” annuncia, interrompendo il flusso dei pensieri. Gli sono grata per l’interludio, per quel suo adoprarsi che ricorda gli steli d’erba nell’estate dei miei vent’anni.

 

* “Affaticamento all’avambraccio” di Walter Lazzarin. http://scrittoreperstrada.blogspot.it/

 

 

Rigurgiti.

Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale. E per tornare, lui è tornato. Solo che…

Solo che non è stato il ritorno del figliol prodigo. È stato più un rigurgito, un trabocco casuale .
D’altra parte, in questi mesi di latitanza, mi ha lasciato tutto il tempo per smaltire la vena romantica che tempo addietro avrebbe perdonato ogni assenza, giustificato l’indifferenza e finanche visto in un suo rutto una dichiarazione d’amore, al limite del masochismo e della vanità cognitiva. Ora, che vedo il silenzio per quel che è, ossia semplice menefreghismo, non gli ricamo più sopra un romantico e penoso esilio con la stessa ragione d’essere che avrebbe nella Verona dei Montecchi e dei Capuleti l’esilio del passionale Romeo.

Ma torniamo al riflusso e al quell’improvvido risalire controcorrente.

Arriva un messaggio su #WhatsApp: “Il kebab più vicino qui è a trenta chilometri.”tarot-991041_1920

“‘mbè, mangia un’insalata. Detto questo, chi sei?

“Guarda il prefisso telefonico e indovina!

“Aspetta che prendo i tarocchi e vediamo che cosa suggeriscono…”

Segue un silenzio imbarazzante. Forse, è rimasto in attesa del responso della divinazione.

“Sei Filippo?” (Naturalmente non gli dirò mai che il suo nome era comparso nella notifica del messaggio)

Yeah!

Eravamo rimasti che avresti sollevato me e la mia carrozzina con una mano, giacché a forza di spaccar legna ti erano venuti i bicipiti di Hulk Hogan. Eravamo rimasti che ti stavi industriando per portarmi a nuotare in mare aperto, in mezzo ai marosi. Poi, il nulla. Qualsiasi persona sana di mente – e non dotata della coppia cromosomica XX – avrebbe intuito che la sola spiegazione plausibile era la più semplice, come Guglielmo di Occam insegna: eri totalmente girl-1258739_1920concentrato su un’altra fica. Tuttavia, io – che la salute mentale ho barattato con la vena creativa, e che per natura sono geneticamente complessa – ti avevo creduto morto in un incidente d’auto, freddato da un fulmine mentre riparavi l’antenna in equilibrio sui tetti, perito per l’esposizione alle scorie radioattive durante una gita a Trino, in mezzo alle risaie del vercellese. Ho continuato a giustificare la tua assenza anche quando era ormai chiaro ai muri che ti stessi sbattendo un’altra, mentre io provavo a superare il lutto con il velo delle vedove in testa e l’album fotografico sul telefono trasformato in un tabernacolo.

“Qui è tutto surreale” confida, mentre per farmi accettare la desolazione in cui si è cacciato mostra fotografie di strade dissestate, sentieri brulli di terra rossa, zolle aride bucate qua e là da un arbusto che pare conficcato con artificio come il muschio nel presepe anziché cresciuto e nutrito da quella stessa terra, e poi tramonti su un orizzonte piatto, deserto, e albe ancora più solitarie. “Solo Jodorowsky saprebbe descrivere questi luoghi così… solitari” aggiunge. Ecco, ora mistifico la realtà: al posto di uno stronzo vedo uno spirito libero, un asceta che mortifica la carne lontano dalla civiltà, isolato dal resto del mondo. E inizio a pensare che allora erano necessari il silenzio e la solitudine, di certo anche la noia, per riportare di fronte ai miei occhi quelli suoi azzurri che ricordo così nitidi, al risveglio, in un mattino assolato della scorsa estate. Solo che ora, adombrato dal nero d’antimonio di altri occhi che in questi mesi hanno fissato i miei, quello che rivedo è un azzurro come tanti, certo un bel colore, ma ha perso quella sfumatura che lo rendeva unico, esclusivo.
Tuttavia, non voglio tacere. Se questo ritorno – fosse anche per evitarti uno sbadiglio – è figlio del silenzio, allora merita onestà e parole schiette.
Sai, il ricordo più intimo che ho di noi non è legato al sesso. Il momento che ricordo con più intensità è quello di una notte, appena rincasati dal lago, in cui tu mi hai aiutata a struccarmi, nel mio bagno, sotto una luce fredda di applique.
“Io ero così impacciato…”ricorda: “Hai fatto quasi tutto tu.” Poi sposta lo sguardo su un punto dietro le mie spalle: “Hai un nuovo coinquilino…”
Mi volto. Sì, la credenza indiana è un recente acquisto.
Finalmente, ora so che il mio non è stato un passaggio in ombra.

#Il rosso non è il nuovo verde

Esco di casa vestita come un ninja metropolitano: felpa nera, cappuccio sulla testa, occhi delineati da uno spesso strato di Kohl – che per i paladini del “boh” altro non è che Kajal secondo il vocabolario magrebino. L’eccitazione ramifica nelle vene, si contrae e si dilata all’unisono con il cuore, battito dopo battito. Mi sento libera. Ci sentiamo libere. Katarzyna, è tornata in Italia per sostituire la mia nuova assistente in congedo per motivi personali. Non la vedo da più di due mesi. A fine febbraio aveva rassegnato le dimissioni ed era rimpatriata per intraprendere una carriera di tutto rispetto – sostanzialmente, ha iniziato a frequentare un corso sulla preparazione della salma prima della sepoltura, il che instilla in me il ragionevole dubbio che vi sia un’associazione tra il lavoro svolto con la sottoscritta e l’aver maturato la passione per i cadaveri.

 Katarzyna è una ragazza silenziosa, discreta, per un certo verso timida, soggetta all’erubescenza del volto in odore d’imbarazzo, ma se c’è una cosa che non si può negare è la sua totale, imperativa e finanche congenita predisposizione al viaggio!  Prendere un autobus per recarsi in aeroporto, quindi affrontare due ore di volo, riprendere l’autobus per recarsi in stazione, affrontare altre due ore di viaggio in treno, quindi prendere la metropolitana e infine percorrere tre chilometri a piedi per arrivare da me, ha per lei lo stesso significato che per me ha svoltare l’angolo per andare a svuotare la pattumiera dietro casa.road-166543_1280 Un’inezia. Il suo arrivo mi ha regalato un buonumore sferzante, la promessa di una settimana randagia, succhiata al midollo; la sua presenza è foriera di vagabondaggio, partenze improvvisate, espatri dal quotidiano. Sicché lei è arrivata ieri e oggi è già pronta – fresca come una notte di settembre a queste latitudini – a guidare la mia auto per accompagnarmi oltralpe.

Il fato vuole, tuttavia, che un impegno improvviso mi costringa a raggiungere la collina torinese, con una notevole deviazione al percorso stabilito. Chi se ne frega! Anzi, chi cazzo se ne frega! Ho un’auto, un’assistente biologicamente programmata per divorare chilometri alla stregua di nutrienti, chi se ne…pardon, chi cazzo se ne frega della variazione al tragitto: un’insignificante sfumatura alla banalità monocromatica di ogni pianificazione.

Sopra le nostre teste, il cielo bigio pare solidificarsi in un preludio di pioggia. Ma c’è musica, c’è il serbatoio pieno di carburante, c’è lo zaino con una manciata di indumenti e due spazzolini da denti. Partiamo.E mentre il veicolo si avvia sulla traiettoria segnata dall’asfalto, ingoiandola come un avido fratello cannibale, il pensiero della pioggia si fa sempre più liquido, scende in profondità e alla fine rimane vittima di se stesso, annega. “Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente” annuncio a bassa voce, non perché voglia comunicarlo in sordina, bensì perché in questo momento una minuscola ma fatale scheggia di caramella all’anice si è conficcata tra la tonsilla e le corde vocali destabilizzando l’ugola. Katarzyna, che ha l’udito di una tarma della cera ma quando guida sotto la pioggia perde sensibilmente queste qualità da falena, orienta l’orecchio verso di me – che siedo dietro nella loggetta predisposta alla carrozzina come farebbe un purosangue nel box – e nel farlo ruota leggermente la testa.

In quel preciso istante la luce verde del semaforo si spegne e si accende quella rossa. Ma traffic-lights-1013506_1280noi siamo già oltre, nel bel mezzo di un incrocio dove iniziano a sfrecciare auto da tutte le direzioni, come fili di un ordito che si sta tessendo. E sempre in quell’istante, un’auto con a bordo due agenti della Polizia Municipale ci avvista. Uno di loro scende dall’auto e iracondo scarica addosso a Katarzyna tutta una serie di invettive finendo con il chiederle di accostare per poterle ritirare la patente. E qui entra in gioco il mio utilissimo culo poggiato su quattro ruote. “Io sono con persona disabile” esclama Katarzyna con la voce infuocata dall’ira. Allora, gli occhi azzurri dell’agente improvvisamente si pietrificano. Cerca di vedere aldilà del vetro oscurato, poi apre il portellone e si trova di fronte il mio sguardo implorante da gatta randagia strabica. Forse più per timore della Sfiga dell’Handicappata che per il fascino sortito dalla mia pupilla maliarda, l’agente desiste dall’intento. Ripartiamo.

Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente. “Degna celebrazione!” esclamo mentre ricomincio a canticchiare un motivetto che ho in testa da qualche giorno.

 

L’addio.

Alhamdulillah, sia lode a Dio per averti messa sul mio cammino. “Sia lode a Dio” verrebbe da dire se non fossi un’agnostica che ha sempre procrastinato ogni ammissione di fede perché convinta che la nostra vita sia il tempo della ricerca e non del monotono celebrare una verità raggiunta.

Sono in piedi, sulla terra.
Il mio corpo: uno stelo d’erba
che, per esistere, succhia
il sole, il vento, l’acqua. (Forough Farrokhzad)

Hanane ed io ci siamo congedate in mezzo agli effluvi degli incensi, quelli dolciastri del nag champa e quelli acri della carta d’Eritrea. All’imbrunire, tra la masnada degli ambulanti e i giochi chiassosi dei bambini. Le sue dimissioni in vista del matrimonio le aveva rassegnate ufficiosamente già da qualche mese. Tuttavia, è rimasta al mio fianco fintanto che non ho trovato una degna sostituta.

Torino pullula di viandanti. “Due addii in un mese sono troppi per me”. Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: “Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana.”
“Ma il mio non è un addio!” assicura, ed è più un voler porre l’accento sul fatto che sì, ha visto l’operato clandestino e il viavai di cani in fregola, conosce il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti. Più su questi ultimi, ovviamente. Lei ha visto il cuore e non intende alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.
Alhamdulillah” verrebbe da dire.