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Dopo di noi: l’inganno.

Mentre il mio vicino di casa canta a squarciagola: “Parlami d’amore Mariuccia, prendilo tutto nella boccuccia” – a lui piace esprimersi con parole sue, non ha imparato a memoria nemmeno il numero civico della casa in cui vive – io provo a leggere il testo di quella enorme porcata che è la legge del Dopo di Noi. E via via che le parole scorrono davanti agli occhi, sempre più asfissianti, esiziali, mi ritrovo a constatare il degrado del nostro paese. Penso a quanto sia caduto in basso, affossandosi per la mentalità retriva che ne pervade le politiche sociali. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti i principi costituzionali che sanciscono la libertà di tutti i cittadini? Con questa legge che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, con questa legge criminale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Il trillo del microonde mi ricorda che l’infuso all’arancia e zenzero è pronto. Non ho mai abbastanza pazienza per mettere l’acqua a scaldare nel bollitore, meglio le radiazioni elettromagnetiche ad alta frequenza. “Ma quale tisana!” penso avvicinandomi al tavolo “passami la bottiglia del rum…” Sono le 4.00 del pomeriggio ed io ho bisogno di alleggerirmi i pensieri con l’alcool tanto quanto la bevitrice d’assenzio di Degas. La mia assistente versa due dita di rum nel bicchiere e lo annacqua con uno spruzzo di cola, poi si congeda.

Torno alle mie ruminazioni. Vedo: con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche, il legislatore ci ha rispediti nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

frogs-1347637_1920Al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Una legge ci ha appena riportati nel rinascimento, tacciati dalla buonanima di Gregorio Magno di essere anime maledette e pertanto anime da tenere distanti, segregate in appositi lazzaretti sociali per rimarcare la netta distinzione tra sani e malati. Una legge approvata il 14 giugno 2016 ci ha rimesso al collo la campana degli appestati e ha anteposto ai nostri dati anagrafici lo status di emarginati.

Lui, che mi ascolta come si ascolta la geremiade dietro la grata di un confessionale, gesùreplica: “Guarda che le lussuriose finivano nei manicomi…” Prosegue “A Gesù non piacciono le donne di facili costumi. O no?” Lo scruto perplessa. Allora, mi mostra un’immagine sul telefono: un’iconografia grottesca di un Cristo con una pin-up in grembo. Sorrido.

“Ti senti Gesù?” sto al gioco.

No, ma seguo il suo esempio.” replica prontamente, facendo eco agli insegnamenti dell’oratorio e dell’adolescenza volata tra le tuniche dei gesuiti. “Vuoi sdraiarti sulle mie ginocchia?

Rido. All’istante, la mente evade dalla cella in cui immagino il mio corpo, sguscia attraverso le grate della prigione in cui la si voleva ieri per ragioni divine e in cui la si vuole oggi per ragioni economiche. Mi immagino libera.

E chi non vuole comprendere l’importanza di anteporre il “durante noi” al “dopo di noi”, chi non riesce a intravedere il trucco dietro quest’opera di prestidigitazione che tutela gli interessi delle lobby assicurative e delle lobby del sociale anziché delle persone con disabilità, chi non comprende che quel spedirci “in gruppi appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare” è un atto di deportazione nudo e crudo e che per deistituzionalizzazione s’intende il poter restare a casa propria e non il venire destinati a case famiglia, ebbene chi non comprende tutto ciò si merita il legislatore e le sue lordure. E anche un dio debosciato.

 

Le seghe di Alessandro.

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. Solo che, certe volte la mia non è propriamente voglia di essere dentro a qualcuno, bensì è più voglia di avere dentro qualcuno. Le romantiche paladine della maternità spengano all’istante quel baluginio commosso della pupilla che compare ogniqualvolta annusano nell’aere il desiderio di un figlio, si ricompongano: la mia è solo voglia di cazzo. E non ci intravedano alcunché di sentimentale, non ho intenzione di personificare un pene mettendolo metaforicamente in sella a un purosangue ed equipaggiandolo dell’armatura che spetta ai nobili cavalieri. Ho solo voglia di qualcosa che mi si muova dentro e che nulla abbia a che vedere con l’amore. Ché a forza di sentir le viscere aggrovigliarsi per le emozioni m’è venuta voglia di sentirmele sbattere unicamente per il sesso.

L’amore non c’entra nulla, giacché l’amore che arriva è sempre guercio e monco che a gnu-161341_1280guardarlo ti vien pena per lui e ti sovviene di concedergli la precedenza in ogni dove, finanche alle casse del supermercato. E a forza di starci appresso, di cercarlo negli occhi della prima bestia in fregola che tra le lenzuola ha, sì, promesso le stelle ma che è sparita alle prime luci dell’alba, s’è rivelato un feticcio, un ammennicolo oggetto di ammirazione fanatica. Allora, lungi dal finire miseramente a peccare d’idolatria per una carcassa bovina sifilitica anziché per un vitello d’oro – il peccato va compiuto come dio comanda, altrimenti l’offende – del toro meglio venerar solo le pudende.

“Sicché Aristotele prescrisse ad Alessandro di trastullare il membro?” domanda divertito. Poi prosegue: “Certo che quel Lazzarin è proprio un genio! Io non riuscirei a formulare mezza frase usando parole che iniziano tutte con la stessa lettera, figuriamoci scrivere un intero racconto…” Allunga una mano per toccarsi la fronte: “Come s’intitola il tautogramma? Uhm, ecco…sì: affaticamento all’avambraccio!

“Adesso argomenteremo attorno agli effetti – affermò Aristotele avvicinandosi adagio ad Alessandro. Allenati, abituati all’autoerotismo…*” cito, mentre la sua mano è già scivolata dalla fronte alle cosce.

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono sundress-336590_1920ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie. Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.

“All’amicizia aggiungiamoci attrazione: avvertiremo appetiti ancestrali, aspireremo ad accoppiarci.*” annuncia, interrompendo il flusso dei pensieri. Gli sono grata per l’interludio, per quel suo adoprarsi che ricorda gli steli d’erba nell’estate dei miei vent’anni.

 

* “Affaticamento all’avambraccio” di Walter Lazzarin. http://scrittoreperstrada.blogspot.it/

 

 

Rigurgiti.

Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale. E per tornare, lui è tornato. Solo che…

Solo che non è stato il ritorno del figliol prodigo. È stato più un rigurgito, un trabocco casuale .
D’altra parte, in questi mesi di latitanza, mi ha lasciato tutto il tempo per smaltire la vena romantica che tempo addietro avrebbe perdonato ogni assenza, giustificato l’indifferenza e finanche visto in un suo rutto una dichiarazione d’amore, al limite del masochismo e della vanità cognitiva. Ora, che vedo il silenzio per quel che è, ossia semplice menefreghismo, non gli ricamo più sopra un romantico e penoso esilio con la stessa ragione d’essere che avrebbe nella Verona dei Montecchi e dei Capuleti l’esilio del passionale Romeo.

Ma torniamo al riflusso e al quell’improvvido risalire controcorrente.

Arriva un messaggio su #WhatsApp: “Il kebab più vicino qui è a trenta chilometri.”tarot-991041_1920

“‘mbè, mangia un’insalata. Detto questo, chi sei?

“Guarda il prefisso telefonico e indovina!

“Aspetta che prendo i tarocchi e vediamo che cosa suggeriscono…”

Segue un silenzio imbarazzante. Forse, è rimasto in attesa del responso della divinazione.

“Sei Filippo?” (Naturalmente non gli dirò mai che il suo nome era comparso nella notifica del messaggio)

Yeah!

Eravamo rimasti che avresti sollevato me e la mia carrozzina con una mano, giacché a forza di spaccar legna ti erano venuti i bicipiti di Hulk Hogan. Eravamo rimasti che ti stavi industriando per portarmi a nuotare in mare aperto, in mezzo ai marosi. Poi, il nulla. Qualsiasi persona sana di mente – e non dotata della coppia cromosomica XX – avrebbe intuito che la sola spiegazione plausibile era la più semplice, come Guglielmo di Occam insegna: eri totalmente girl-1258739_1920concentrato su un’altra fica. Tuttavia, io – che la salute mentale ho barattato con la vena creativa, e che per natura sono geneticamente complessa – ti avevo creduto morto in un incidente d’auto, freddato da un fulmine mentre riparavi l’antenna in equilibrio sui tetti, perito per l’esposizione alle scorie radioattive durante una gita a Trino, in mezzo alle risaie del vercellese. Ho continuato a giustificare la tua assenza anche quando era ormai chiaro ai muri che ti stessi sbattendo un’altra, mentre io provavo a superare il lutto con il velo delle vedove in testa e l’album fotografico sul telefono trasformato in un tabernacolo.

“Qui è tutto surreale” confida, mentre per farmi accettare la desolazione in cui si è cacciato mostra fotografie di strade dissestate, sentieri brulli di terra rossa, zolle aride bucate qua e là da un arbusto che pare conficcato con artificio come il muschio nel presepe anziché cresciuto e nutrito da quella stessa terra, e poi tramonti su un orizzonte piatto, deserto, e albe ancora più solitarie. “Solo Jodorowsky saprebbe descrivere questi luoghi così… solitari” aggiunge. Ecco, ora mistifico la realtà: al posto di uno stronzo vedo uno spirito libero, un asceta che mortifica la carne lontano dalla civiltà, isolato dal resto del mondo. E inizio a pensare che allora erano necessari il silenzio e la solitudine, di certo anche la noia, per riportare di fronte ai miei occhi quelli suoi azzurri che ricordo così nitidi, al risveglio, in un mattino assolato della scorsa estate. Solo che ora, adombrato dal nero d’antimonio di altri occhi che in questi mesi hanno fissato i miei, quello che rivedo è un azzurro come tanti, certo un bel colore, ma ha perso quella sfumatura che lo rendeva unico, esclusivo.
Tuttavia, non voglio tacere. Se questo ritorno – fosse anche per evitarti uno sbadiglio – è figlio del silenzio, allora merita onestà e parole schiette.
Sai, il ricordo più intimo che ho di noi non è legato al sesso. Il momento che ricordo con più intensità è quello di una notte, appena rincasati dal lago, in cui tu mi hai aiutata a struccarmi, nel mio bagno, sotto una luce fredda di applique.
“Io ero così impacciato…”ricorda: “Hai fatto quasi tutto tu.” Poi sposta lo sguardo su un punto dietro le mie spalle: “Hai un nuovo coinquilino…”
Mi volto. Sì, la credenza indiana è un recente acquisto.
Finalmente, ora so che il mio non è stato un passaggio in ombra.

#Il rosso non è il nuovo verde

Esco di casa vestita come un ninja metropolitano: felpa nera, cappuccio sulla testa, occhi delineati da uno spesso strato di Kohl – che per i paladini del “boh” altro non è che Kajal secondo il vocabolario magrebino. L’eccitazione ramifica nelle vene, si contrae e si dilata all’unisono con il cuore, battito dopo battito. Mi sento libera. Ci sentiamo libere. Katarzyna, è tornata in Italia per sostituire la mia nuova assistente in congedo per motivi personali. Non la vedo da più di due mesi. A fine febbraio aveva rassegnato le dimissioni ed era rimpatriata per intraprendere una carriera di tutto rispetto – sostanzialmente, ha iniziato a frequentare un corso sulla preparazione della salma prima della sepoltura, il che instilla in me il ragionevole dubbio che vi sia un’associazione tra il lavoro svolto con la sottoscritta e l’aver maturato la passione per i cadaveri.

 Katarzyna è una ragazza silenziosa, discreta, per un certo verso timida, soggetta all’erubescenza del volto in odore d’imbarazzo, ma se c’è una cosa che non si può negare è la sua totale, imperativa e finanche congenita predisposizione al viaggio!  Prendere un autobus per recarsi in aeroporto, quindi affrontare due ore di volo, riprendere l’autobus per recarsi in stazione, affrontare altre due ore di viaggio in treno, quindi prendere la metropolitana e infine percorrere tre chilometri a piedi per arrivare da me, ha per lei lo stesso significato che per me ha svoltare l’angolo per andare a svuotare la pattumiera dietro casa.road-166543_1280 Un’inezia. Il suo arrivo mi ha regalato un buonumore sferzante, la promessa di una settimana randagia, succhiata al midollo; la sua presenza è foriera di vagabondaggio, partenze improvvisate, espatri dal quotidiano. Sicché lei è arrivata ieri e oggi è già pronta – fresca come una notte di settembre a queste latitudini – a guidare la mia auto per accompagnarmi oltralpe.

Il fato vuole, tuttavia, che un impegno improvviso mi costringa a raggiungere la collina torinese, con una notevole deviazione al percorso stabilito. Chi se ne frega! Anzi, chi cazzo se ne frega! Ho un’auto, un’assistente biologicamente programmata per divorare chilometri alla stregua di nutrienti, chi se ne…pardon, chi cazzo se ne frega della variazione al tragitto: un’insignificante sfumatura alla banalità monocromatica di ogni pianificazione.

Sopra le nostre teste, il cielo bigio pare solidificarsi in un preludio di pioggia. Ma c’è musica, c’è il serbatoio pieno di carburante, c’è lo zaino con una manciata di indumenti e due spazzolini da denti. Partiamo.E mentre il veicolo si avvia sulla traiettoria segnata dall’asfalto, ingoiandola come un avido fratello cannibale, il pensiero della pioggia si fa sempre più liquido, scende in profondità e alla fine rimane vittima di se stesso, annega. “Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente” annuncio a bassa voce, non perché voglia comunicarlo in sordina, bensì perché in questo momento una minuscola ma fatale scheggia di caramella all’anice si è conficcata tra la tonsilla e le corde vocali destabilizzando l’ugola. Katarzyna, che ha l’udito di una tarma della cera ma quando guida sotto la pioggia perde sensibilmente queste qualità da falena, orienta l’orecchio verso di me – che siedo dietro nella loggetta predisposta alla carrozzina come farebbe un purosangue nel box – e nel farlo ruota leggermente la testa.

In quel preciso istante la luce verde del semaforo si spegne e si accende quella rossa. Ma traffic-lights-1013506_1280noi siamo già oltre, nel bel mezzo di un incrocio dove iniziano a sfrecciare auto da tutte le direzioni, come fili di un ordito che si sta tessendo. E sempre in quell’istante, un’auto con a bordo due agenti della Polizia Municipale ci avvista. Uno di loro scende dall’auto e iracondo scarica addosso a Katarzyna tutta una serie di invettive finendo con il chiederle di accostare per poterle ritirare la patente. E qui entra in gioco il mio utilissimo culo poggiato su quattro ruote. “Io sono con persona disabile” esclama Katarzyna con la voce infuocata dall’ira. Allora, gli occhi azzurri dell’agente improvvisamente si pietrificano. Cerca di vedere aldilà del vetro oscurato, poi apre il portellone e si trova di fronte il mio sguardo implorante da gatta randagia strabica. Forse più per timore della Sfiga dell’Handicappata che per il fascino sortito dalla mia pupilla maliarda, l’agente desiste dall’intento. Ripartiamo.

Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente. “Degna celebrazione!” esclamo mentre ricomincio a canticchiare un motivetto che ho in testa da qualche giorno.

 

L’addio.

Alhamdulillah, sia lode a Dio per averti messa sul mio cammino. “Sia lode a Dio” verrebbe da dire se non fossi un’agnostica che ha sempre procrastinato ogni ammissione di fede perché convinta che la nostra vita sia il tempo della ricerca e non del monotono celebrare una verità raggiunta.

Sono in piedi, sulla terra.
Il mio corpo: uno stelo d’erba
che, per esistere, succhia
il sole, il vento, l’acqua. (Forough Farrokhzad)

Hanane ed io ci siamo congedate in mezzo agli effluvi degli incensi, quelli dolciastri del nag champa e quelli acri della carta d’Eritrea. All’imbrunire, tra la masnada degli ambulanti e i giochi chiassosi dei bambini. Le sue dimissioni in vista del matrimonio le aveva rassegnate ufficiosamente già da qualche mese. Tuttavia, è rimasta al mio fianco fintanto che non ho trovato una degna sostituta.

Torino pullula di viandanti. “Due addii in un mese sono troppi per me”. Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: “Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana.”
“Ma il mio non è un addio!” assicura, ed è più un voler porre l’accento sul fatto che sì, ha visto l’operato clandestino e il viavai di cani in fregola, conosce il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti. Più su questi ultimi, ovviamente. Lei ha visto il cuore e non intende alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.
Alhamdulillah” verrebbe da dire.

Inshallah

Ci sono gesti che fanno riflettere. Quando trascorro una notte “speciale”, ad esempio, ed Hanane – la mia assistente – mi prepara con una tale delicatezza che pare un esercizio estetico: adagia con cura i miei capelli sul cuscino, ne allunga qualche ciocca sulle spalle, accende le candele e, infine, dà un ultimo ritocco alla lingerie come fosse il compimento di un’opera d’arte. Un’arte rasoterra – certo – nutrita dai sottili equilibri tra le simmetrie e gli estetismi, dalla carne più che dallo spirito; un’arte che è più un mestiere, e che richiede l’uso delle mani, che non si accontenta di mostrare ma abbisogna di toccare, di sentire sotto le dita.

Quando verrà il momento
Nella follia  catturerò il firmamento e lambirò le nubi
Prenderò in prestito la bufera  lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
E me ne andrò.

Joumana Haddad

In quei momenti la mia scarsa mobilità passa in secondo piano, non è che un’appendice. Hanane distende le pieghe sulle lenzuola fresche di bucato, poi appoggia al fondo del letto la coperta ripiegata con cura. Nella stanza l’odore degli incensi avviluppa l’effluvio delle spezie usate per la cena: cardamomo, coriandolo, curcuma…

Mi pare di aver sbagliato nel frequente tentativo di dare un senso all’immobilità a seguire l’indicazione ieratica e gelida delle statue. Avrei dovuto, invece, seguire un’altra direzione, quella che la statua non incarna, quel verso, quella traiettoria che scorre dal gelo inorganico della scultura al calore animale del sangue. Hanane mi prepara come fossi una sposa, non accenna al benché minimo raffronto con la materia inorganica. “La scultura è la meno carnale delle arti; la sfida che propone deve affidarsi al freddo…” suggerisce l’amico Dario.
Se nella vita avessi seguito ciò che mi veniva suggerito, forse, avrei imparato più in fretta a non confondere il bisogno delle mani altrui con il rimettersi alla loro volontà. Invece, c’è voluto tempo.
Ho guardato, non senza un sentimento di ripulsa, dritto dentro quel crogiolo di elementi intaccato dal tempo, ho guardato con occhi da voyeur quella mistura infetta dove carne e larve si spartivano il nutrimento; ci ho conficcato dentro lo sguardo, come a mirare il baricentro, per dare l’illusione alla pupilla di poter fissare un insospettabile equilibrio. Ma la mente ha sempre desiderato andare altrove, sicché agli occhi non è rimasto altro che rispecchiarne l’irrequietezza di zingara, il tormento interiore che la faceva sentire troppo stretta in un luogo e in un corpo. Poiché c’è un limite alla resistenza umana, una volta raggiunto si finisce col fermarsi definitivamente o si cerca un altrove in cui reinventare la propria vita.
Ora, sulla soglia di casa lo zaino invoca nuovamente la partenza…

Un bel tacer

“Un bel tacer non fu mai scritto.” mi sovviene mentre attendo che svanisca il sonno, esausta, al risveglio dopo una giornata che è stata tutto fuorché ordinaria.
Un bel tacer…Ma che cazzo me ne frega di tacere se tutto ciò che voglio è scrivere? Scrivere su ogni centimetro di epidermide, su ogni brandello di carta, sui muri, sui margini delle pagine, sui Testi Sacri, sui delicati incastri delle sinapsi…

È l’unica volontà conservata integra dagli anni dell’infanzia; la sola che non si sia trasformata in un “avrei voluto”.
Voglio scrivere dello scroscio della pioggia giunto a sorpresa nel tardo pomeriggio subito dopo il bagliore del lampo dentro la stanza in penombra. E voglio scrivere della mia natura snaturata, spuria, delle sue pendenze, e della nausea che fa eco al piacere e alla fine si confonde con esso.
“Ho viaggiato poco” confida con una punta di rammarico.
“Io, invece, ho viaggiato moltissimo benché spesso ferma in un luogo.”
Fa un cenno al mio sguardo, all’iride scura che quando fissa un punto di fronte a sé si spoglia della dolcezza e risveglia una bestia assopita dentro.
“C’è una parte di te cupa come il colore degli occhi ed un’altra limpida, rasserenante, così diversa…” suggerisce come a rispondere ad un proprio dissidio interiore ed io gli accordo il piacere di avere l’ultima parola, lascio morire il discorso.
Voglio scrivere del paese in cui sono nata, della sua meravigliosa antichità che, sì, è retriva e bigotta ma pullula di storia e continua a dar voce ai morti.

“Ti faccio un po’ paura?” chiedo in attesa più di una conferma che di un’affermazione, e con una sola ragione nella testa e tra le cosce.
Ma, intanto, un’euforia densa e pulsante distoglie la mia attenzione dalla risposta. “Un cazzo. Non me ne frega un cazzo.”
Allora sorride.
Voglio scrivere del giorno che si è spento con un copioso scroscio di pioggia, del cielo aldilà del vetro. Del cielo che si è fatto cupo come l’iride e ha aizzato la bestia e fomentato la voglia di canticchiare una canzone di quando ero bambina.

L’irrequietezza di zingara.

Il racconto non può dirsi concluso finché non si spinge dai rigidi ingranaggi di una giostra oltre le rive della Saone, ben oltre lo spartiacque che separa l’odierna struttura urbana dalle vecchie mura della città.

L’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore.

Ci eravamo lasciati in Place de la Republique ad osservare i bambini su una giostra, sotto un cielo cupo e minaccioso. Ciò che non avevo detto era che quell’orizzonte grigio incorniciava la città, ne era lo sfondo perfetto. Il contrasto con le sfumature rosa e ocra dei palazzi, con le vernici rosso vivido dei portoni, con il verde scuro dei dehors ne facevano una condizione imprescindibile.

Attraversando Rue de Brest, mentre quest’intuizione cromatica si andava facendo certezza, Israr, con una sicumera inattesa, si era lasciato sfuggire di bocca il proposito di trasfervisi dopo la laurea in Ingegneria. E aveva continuato a ripeterlo a voce alta sopra il ponte che da Rue Grenette conduce alla Vieux Lyon. Oltrepassato il ponte, invece, era tornato a blandire la fantasia erotica d’oltralpe, arricchendola di dettagli dal fascino rinascimentale. Stefania ed io, nel frattempo, avevamo trovato una tabaccheria ed eravamo entrate per acquistare un adattatore di presa elettrica, ché le prese dell’hotel non erano compatibili con il caricabatterie della mia carrozzina (trascinarla lungo le strade lastricate di porfido era un’eventualità da scongiurare con ogni sorta di ammennicolo apotropaico umanamente concepibile). Sicché, disposte a pagare una cifra esagerata per un pezzo di plastica, eravamo uscite dal negozio con il nostro agognato bottino e con 10 euro in meno nel portafoglio.

Davanti a noi, uno stretto vicolo invitava a percorrerlo. Proprio come i bambini di poco prima ci incuriosiva e affascinava la traiettoria; quell’incanalarsi della città in uno spazio angusto risucchiava i nostri pensieri, monopolizzandoli.  È stato lì, di fronte all’insegna luminosa di un locale che prometteva spettacoli per adulti che il senso del viaggio ha iniziato a prendere forma: l’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore. Non esisteva – dubito sia mai esistito –  un modo giusto o sbagliato per farlo; si dovevano soltanto mettere in fila i passi, uno dopo l’altro, con voluttà…

OGM italo-pakistani

Non è gradevole per un’italiana fiera delle proprie origini dover ammettere che aldilà delle Alpi si trovano infrastrutture e servizi che rendono marcata la discrepanza tra la condizione italiana e quella di molti altri Paesi europei.

Dovrei menzionare l’abissale differenza tra le autostrade,  ad esempio la A32 per un lungo tratto fino al traforo del Frejus è sconnessa a causa dell’asfalto rovinato, mentre, appena varcato il confine la strada si appiana e si allarga dando alla mia schiena e al mio collo tutto il rispetto che meritano; dovrei accennare al clima decisamente “friendly” trovato a Lyon, alla sensazione che né la disabilità, né tantomeno il colore della pelle o l’orientamento sessuale vengano guardati con imbarazzo o con sospetto.

Tuttavia, inizierò dai beni di consumo. Sì, dalle sublimi tarte tatin, dai croissant, dalle madeleine, giungendo ai gaufre e alle soffici baguette, farcite con il burro o con la salsa mayonnaise, che ci hanno letteralmente sedotti (e abbandonati al rientro in patria). Scesi dall’auto, sulla Quai Perrache – carichi di bagagli come se fossimo partiti per un tour intorno al globo – ci crogiolavamo nell’illusione delle buone intenzioni: una vacanza low cost, equo solidale, morigerata e frugale, eticamente essenziale. Meno di un chilometro e una decina di minuti dopo, eravamo già stati perdutamente traviati dai nostri austeri propositi. Proprio all’angolo con Place Bellecour, il profumo fragrante dei dolci esposti nella vetrina di una briocherie aveva inoculato nelle nostre spoglie di giovani (e meno giovani…) anacoreti il seme del mutamento. Diciamo la verità: di fronte ai carboidrati diventiamo tutti organismi geneticamente modificati. E così, noi tre OGM italo-pakistani, dimentichi dei propositi ascetici, abbiamo dato il via a una kermesse di libagioni di cui conserveremo il ricordo nei prossimi mesi, spalmato sui fianchi e sul girovita.

an unpredictable breakfast

That morning, after the usual breakfast at the Cafe No. 76, watching the crumbs of the croissant on the table, I had a clear picture of the place where I would have to start telling everything

Quel mattino, dopo la solita colazione al Caffè n 76, fissando con un alquanto ipocrita senso di colpa le briciole del croissant alla crema sparse sul tavolo, ho avuto la nitida percezione del luogo in cui avrei dovuto far iniziare il viaggio. O meglio, da dove sarei partita per raccontare il viaggio. Così ho invitato la mia assistente a mettere in moto l’auto e ad aiutarmi a salirci. Ricordo, era una calda giornata di luglio e il riverbero sulle superfici vetrate degli edifici conferiva al sole un irresistibile fascino vacanziero. Mi sarei presa una mezza giornata di riposo; avrei fatto la turista, anche, con gli occhiali a buon mercato calati sul naso e indosso una canotta leggera di cotone bianco. Ho chiesto alla mia assistente di guidare fino ad Agliè, attraversando le tranquille strade in mezzo alla campagna impreziosite dall’abbacinante luce estiva. Il percorso lo conoscevo bene: sono nata qui, in questo taglio di terra tra le valli del Canavese e il bacino dell’Orco. Sicchè quando siamo giunte in territorio alladiese mi sentivo più una guida che una turista, intenta a spiegare di vicoli, borgate, dinastie alla mia assistente che viene dalle risaie del vercellese e conosce la residenza sabauda di Agliè solo per sentito dire.

Il caso vuole, tuttavia, che il castello non fosse aperto al pubblico quel giorno, a causa dei danni che i recenti temporali avevano causato nei dintorni.

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