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Cogito ergo dubito.

Quando giunge l’ora del crepuscolo e dietro i tetti delle case il cielo avvampa, quel trovarmi alla finestra con il naso a un palmo dal vetro – intenta a soppesare i pensieri – ricorda la mia vita  e i suoi scenari ascosi, sempre camuffati dietro un tramezzo, una quinta, una coltre di nubi. Si distinguono le lunghe ombre della sera sotto la volta che brucia, ma non si riescono a scorgere l’universo e il suo silenzio oltre quel fuoco. Nemmeno ne si intravede uno scorcio finché le fiamme non si spengono. Eppure, dietro la pira incandescente su cui il cielo dà il suo commiato al giorno il buio più nero  è lì da miliardi di anni. In assoluto silenzio.  Un silenzio che non è assenza di suoni bensì impossibilità ad udirli. Lui si porta alla bocca una pesca, la odora rigirandola nella mano, la stringe tra le dita. “Hai sospeso ogni giudizio?” domando e la risposta non tarda a venire: “Sì, a un filo di rafia annodato al soffitto. Ora oscilla come un pendolo.” Ride.teddy-1361396_1920

Discutevamo di quel nostro schierarci come bambini sempre dalla parte dei giusti. Discutevamo di quella personale idea di giustizia che ci rende migliori agli occhi dello specchio. Non un inganno, più una svista. Discutevamo del nostro sentirci figli. “A guardar bene” interviene “ci han concepiti vicino a una cloaca. Eppure, fingiamo di essere frutti anziché escrementi.

Ne perdono l’impertinenza. All’istante. E accosciati sopra il buco del culo del mondo continuiamo a discutere su quale sia il centro dell’Universo.

Mi torna in mente, per assonanza, il primo perdono della mia vita. O meglio, il primo di cui conservi memoria. La prima assoluzione, la remissione dei peccati che blandiva l’ingenuo spirito di bambini. Ad amministrare il perdono era il Bene, un uomo canuto, chino su se stesso, con le mani rattrappite sulle pieghe di una pesante tonaca. Il Bene aveva occhi affaticati, velati da due fila di lunghe e folte ciglia; occhi umidi, pregni di lacrime, occhi di vecchio. Odorava di stoffe lise e usate, di magazzino, di sacrestia. Nell’alito ne avvertivo il timbro acre dell’incenso, ma forse era il lezzo della marcescenza. Quando si avvicinava per impormi il perdono di Dio, gli vedevo l’intreccio delle vene sul dorso delle mani e la peluria più rada sui polsi.  Aveva mani calde, anche in inverno, e mi soffiava in faccia un’assoluzione intrisa di afrore di candeggina, di muffa e, come ho detto, di marciume. Il Bene mi stringeva in un abbraccio asfittico e appoggiava il molle ordito del volto contro la mia guancia, allora respiravo un odore di gesso polverizzato che a confronto l’aria satura di pulviscolo dentro la gipsoteca di nonno pareva limpida. “Io ti perdono” e le parole risuonavano di una grazia imprevista. Ma la sensazione di mangiare gesso spezzava, con un rumore sordo di cibo che si sbriciola, il mio entusiasmo di redenta. Il Bene puzzava come un moribondo dalle carni infette, e quel sentore di lavagna sporca di scarabocchi scavava il petto, rigirava lo stomaco.

Quale paradosso la confessione dei peccati!” penso ad alta voce. Il richiamo primordialetomb-546915_1280 di Pan è sempre stato una voce millenaria incrostata di magma, un ribollire di forze sotterranee, irresistibile. Lui apre la finestra e si affaccia per gettare oltre la siepe il nocciolo della pesca. Poi socchiude le imposte. Nella stanza vortica un profumo di gelsomino frammisto all’afrore di letame che giunge dalle cascine dall’altro lato del paese. Si avvicina con fare mesto e appoggia le mani sulla mia testa, sopra i capelli che si stanno infoltendo di filacci bianchi.

La penitenza quale sacramento, come direbbe il marchese De Sade” ride “Invece dell’ostia, masticherai il seme!” Sicché, lungi dal credere che saremmo diventati una sola carne agli occhi di Dio, ho allungato una mano verso di lui e riaperto gli occhi sulla mia vita: un cielo infuocato che disperde nel vento le ceneri dei morti. E oltre, l’Universo.

 

I don’t care

Talvolta sento l’esigenza di sfuggire alla città e di camminare – che detto da me, suona alquanto ironico e potrebbe finanche apparire irriverente a qualche anima candida, politicamente corretta, che anziché storpia mi chiama diversamente abile. Ma tant’è che camminare lontano dalla fiumana, in questi momenti di inquietudine, è un richiamo imperativo. E alla necessità di passi, segue intimamente quella di bosco. La voglia di farsi sorprendere da un raggio di sole che penetra tra il fitto fogliame, di inseguire l’orizzonte consapevoli che l’obiettivo non è raggiungerlo, bensì continuare a rincorrerlo, il sentore di umidità ancestrale, l’odore di erba e sterpi arse in qualche vicina radura, liberano i pensieri e li purificano in modo analogo al bicchiere di rum e cola che adesso mi attende, sullo scrittoio, accanto al notebook.

La mia storia è fitta di ombre. Ma a produrre l’ombra è sempre una sorgente di luce.

Una volta prese le distanze dalla scenografia urbana, la mente ramifica tra le fronde e quel lacerto di cuore che mi porto appresso rattoppato e disilluso. Sicché, nutrito da questa maledetta linfa dalla natura ibrida, semi-vegetale ma sanguigna, il pensiero ritorna a quel crocevia solcato dai passi dei viandanti che è la mia vita. All’amore che credevo di aver ghermito ma che si è consumato, giorno dopo giorno, fino a non essere più abbastanza. Occorre essere chiari: ho sempre saputo di essere stata amata, ciononostante mi è parso che ad essere amato, in qualche modo, sia stato più il corpo che lo spirito.

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