Archivi tag: featured

Il gelo e il fuoco.

Durante il tragitto in auto mi soffermo sul contrasto tra le luci delle case e il buio che le circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione non è quel mosaico di luminarie che costella il paesaggio, bensì la tenebra. Quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi, riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.

La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.

14 febbraio 2017.

Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno.  Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: “Un giorno mi ucciderò.”

I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi a sottolineare che quella appena udita è una voce scaturita dall’ugola più che dall’anima. E l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.

Niccolò, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: “Che stai dicendo?”

Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.

Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di anice e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.

Esistono due me.” Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: “Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non disturba.”

Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.

Incalzo: “L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?” domando “Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?

Li osservo. Diego ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.  “Mi ucciderò. Tuttavia, stasera non vi dico quale delle due.”

Dopo un momento di silenzio, Niccolò prende la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: “In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano…” Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. “Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati.” mi affretto a suggerire.  A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.

Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.

L’abisso

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – inutili ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Il cinquanta per cento dei miei amici abita il crepuscolo.

“Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte.”

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri.

“Lo avevo intuito.”

Avvicina le mani, le pone congiunte sulle ginocchia: “Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…”

“E invece s’è fatto incendio sotto la cenere” mi affretto a concludere.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

“Leggevamo insieme, ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.”

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti e ci si fa stretto attorno come placenta.

“Mi fa strano” provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento “che qualcuno ancora avviluppi l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.”

Ascolta senza batter ciglio.

“Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti che tutti gli stupri subiti poi, han preso il sopravvento. Vedi, ora per me una vagina è una fica e tu ti fai rosso in volto quando mi senti parlare così. Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci.”

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

“E poi mi son convinta che il tempo non sia più a mio favore. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze. Ecco, io di affetti sento di averne così pochi che il sapere che a loro il futuro è ancora più nemico mi strappa gli occhi e il cuore.” Bevo, poi proseguo: “L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero sulla mia fica e su Giovanni che un pomeriggio della scorsa estate l’ha cucita, lembo contro lembo, e da allora ogni pensiero su di lei è di carezze e di soffi, e non più di amplessi.”

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Pendenze.

Quando la porta si apre, ad entrare è un vento gelido che giunge dal nord e porta nevischio e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo, da mesi. E non tocco una penna, da mesi. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi dovevo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per sentire un po’ di calore. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.

“Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…” mi confida, esortato ad essere onesto.

“Di questo ti ringrazio. Ora voglio pensare soltanto al mutare delle stagioni.”

Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.

“Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita…” si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. “A volte mi pare di capirti, ma poi mi accorgo che non è così, che ho proiettato su di te sentimenti ed emozioni che sono più miei che tuoi.”

Mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il té verde e subito un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza. Niente di più.

“Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle. Ora non mi interessa più.”

Non ho più scritto perché non ho più toccato corpo. “Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?”

Solleva lo sguardo dalla tazza e mi fissa.

“La vorresti una con la fica infitta e la linfa che dopo aver nutrito le fronde scivola lungo i vasi dentro un sacchetto? La vorresti una che finge di fregarsene ma che in realtà soffre? Ecco, io non sono pronta.”

Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro.  Appena poco più a lato della siepe un pettirosso fruga con il becco tra la neve. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.

Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti essere volgare!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E lui questo lo ignora.

Le seghe di Alessandro.

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. Solo che, certe volte la mia non è propriamente voglia di essere dentro a qualcuno, bensì è più voglia di avere dentro qualcuno. Le romantiche paladine della maternità spengano all’istante quel baluginio commosso della pupilla che compare ogniqualvolta annusano nell’aere il desiderio di un figlio, si ricompongano: la mia è solo voglia di cazzo. E non ci intravedano alcunché di sentimentale, non ho intenzione di personificare un pene mettendolo metaforicamente in sella a un purosangue ed equipaggiandolo dell’armatura che spetta ai nobili cavalieri. Ho solo voglia di qualcosa che mi si muova dentro e che nulla abbia a che vedere con l’amore. Ché a forza di sentir le viscere aggrovigliarsi per le emozioni m’è venuta voglia di sentirmele sbattere unicamente per il sesso.

L’amore non c’entra nulla, giacché l’amore che arriva è sempre guercio e monco che a gnu-161341_1280guardarlo ti vien pena per lui e ti sovviene di concedergli la precedenza in ogni dove, finanche alle casse del supermercato. E a forza di starci appresso, di cercarlo negli occhi della prima bestia in fregola che tra le lenzuola ha, sì, promesso le stelle ma che è sparita alle prime luci dell’alba, s’è rivelato un feticcio, un ammennicolo oggetto di ammirazione fanatica. Allora, lungi dal finire miseramente a peccare d’idolatria per una carcassa bovina sifilitica anziché per un vitello d’oro – il peccato va compiuto come dio comanda, altrimenti l’offende – del toro meglio venerar solo le pudende.

“Sicché Aristotele prescrisse ad Alessandro di trastullare il membro?” domanda divertito. Poi prosegue: “Certo che quel Lazzarin è proprio un genio! Io non riuscirei a formulare mezza frase usando parole che iniziano tutte con la stessa lettera, figuriamoci scrivere un intero racconto…” Allunga una mano per toccarsi la fronte: “Come s’intitola il tautogramma? Uhm, ecco…sì: affaticamento all’avambraccio!

“Adesso argomenteremo attorno agli effetti – affermò Aristotele avvicinandosi adagio ad Alessandro. Allenati, abituati all’autoerotismo…*” cito, mentre la sua mano è già scivolata dalla fronte alle cosce.

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono sundress-336590_1920ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie. Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.

“All’amicizia aggiungiamoci attrazione: avvertiremo appetiti ancestrali, aspireremo ad accoppiarci.*” annuncia, interrompendo il flusso dei pensieri. Gli sono grata per l’interludio, per quel suo adoprarsi che ricorda gli steli d’erba nell’estate dei miei vent’anni.

 

* “Affaticamento all’avambraccio” di Walter Lazzarin. http://scrittoreperstrada.blogspot.it/

 

 

Inshallah

Ci sono gesti che fanno riflettere. Quando trascorro una notte “speciale”, ad esempio, ed Hanane – la mia assistente – mi prepara con una tale delicatezza che pare un esercizio estetico: adagia con cura i miei capelli sul cuscino, ne allunga qualche ciocca sulle spalle, accende le candele e, infine, dà un ultimo ritocco alla lingerie come fosse il compimento di un’opera d’arte. Un’arte rasoterra – certo – nutrita dai sottili equilibri tra le simmetrie e gli estetismi, dalla carne più che dallo spirito; un’arte che è più un mestiere, e che richiede l’uso delle mani, che non si accontenta di mostrare ma abbisogna di toccare, di sentire sotto le dita.

Quando verrà il momento
Nella follia  catturerò il firmamento e lambirò le nubi
Prenderò in prestito la bufera  lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
E me ne andrò.

Joumana Haddad

In quei momenti la mia scarsa mobilità passa in secondo piano, non è che un’appendice. Hanane distende le pieghe sulle lenzuola fresche di bucato, poi appoggia al fondo del letto la coperta ripiegata con cura. Nella stanza l’odore degli incensi avviluppa l’effluvio delle spezie usate per la cena: cardamomo, coriandolo, curcuma…

Mi pare di aver sbagliato nel frequente tentativo di dare un senso all’immobilità a seguire l’indicazione ieratica e gelida delle statue. Avrei dovuto, invece, seguire un’altra direzione, quella che la statua non incarna, quel verso, quella traiettoria che scorre dal gelo inorganico della scultura al calore animale del sangue. Hanane mi prepara come fossi una sposa, non accenna al benché minimo raffronto con la materia inorganica. “La scultura è la meno carnale delle arti; la sfida che propone deve affidarsi al freddo…” suggerisce l’amico Dario.
Se nella vita avessi seguito ciò che mi veniva suggerito, forse, avrei imparato più in fretta a non confondere il bisogno delle mani altrui con il rimettersi alla loro volontà. Invece, c’è voluto tempo.
Ho guardato, non senza un sentimento di ripulsa, dritto dentro quel crogiolo di elementi intaccato dal tempo, ho guardato con occhi da voyeur quella mistura infetta dove carne e larve si spartivano il nutrimento; ci ho conficcato dentro lo sguardo, come a mirare il baricentro, per dare l’illusione alla pupilla di poter fissare un insospettabile equilibrio. Ma la mente ha sempre desiderato andare altrove, sicché agli occhi non è rimasto altro che rispecchiarne l’irrequietezza di zingara, il tormento interiore che la faceva sentire troppo stretta in un luogo e in un corpo. Poiché c’è un limite alla resistenza umana, una volta raggiunto si finisce col fermarsi definitivamente o si cerca un altrove in cui reinventare la propria vita.
Ora, sulla soglia di casa lo zaino invoca nuovamente la partenza…

Seduta!

La leggenda metropolitana vuole che da bambina io fossi mite e docile, ma nell’attribuirmi siffatto spirito di abnegazione non dà merito alle fantasiose turpitudini del seme di Satana che incarnavo pur se dipinta come la Madonna dell’Umiltà di Gentile da Fabriano. Ogni racconto della mia infanzia finisce sempre dove è iniziato: se comincia con me seduta su una poltrona, finisce con me seduta sulla poltrona; se comincia con me seduta su una sedia con il sedile sfondato e lo schienale sbilenco tenuto su da una vite arrugginita a cui basta un soffio di vento per farlo crollare, finisce con me seduta sulla stessa sedia che, pur se prossima allo sfascio, non ha subito il benché minimo danno e rimane lì a farsi beffe del rigattiere, stoica e orgogliosa come un veterano al pensionamento. In un modo o nell’altro, infatti, la narrazione giunge costantemente a millantare una mansuetudine al limite della letargia.

Tuttavia, com’è chiaramente comprensibile, la ragione per cui mi ritrovavano sempre nello stesso posto in cui mi avevano lasciata era ben lungi dal riflettere una presunta vocazione…anche perché, in quel caso, sarebbe stata d’uopo una visita psichiatrica o al limite un esorcismo.

Ebbene, quando mio padre e mia madre si rassegnarono a comprarmi una sedia a rotelle, io provai la stessa meraviglia di colui (o colei) che inventò la ruota. Ecchecazzo! Finalmente potevo arrivare al frigorifero a rubare la maionese all’ora del coprifuoco, ovvero quei sessanta minuti prima di cena nei quali rovinarsi l’appetito con un cracker era considerato vilipendio alla bandiera, figuriamoci ingurgitare un tubetto di maionese con la stessa foga con cui un asmatico si avventa sul broncodilatatore.

Ma dicevo dell’emancipazione, finalmente potevo muovermi a fianco degli altri e non più in braccio ad uno di loro! Non ci sarebbero mai più state scarpinate a cavalcioni su qualche dorso o fianco che si prestasse a farmi da marsupio; non avrei mai più dovuto gettare le braccia intorno al collo di qualcuno per attraversare il salotto o per uscire sul terrazzo, aggrappata a lui come un koala al ramo. Inoltre, crescendo ho potuto sviluppare la percezione di me in uno spazio ben più ampio del metro quadrato che occupava la sedia. Soprattutto non sono mai più stata dimenticata in qualche luogo…Screen-Shot-2014-05-11-at-9.05.54-AM seduta su qualche trabiccolo; nessuno è più venuto a recuperarmi in palestra dopo che, terminate le due ore di matematica, si era accorto che non ero tornata in classe alla fine dell’ora di educazione fisica, nessuno mi ha più dimenticata sull’autobus per poi venirmi a recuperare al capolinea, o scordata accanto alla salma della prozia Pia, che pia non era perché, a furor di popolo, pare che avesse gli sfinteri più famosi di tutto il paese e che riuscisse a fare certi giochi di prestidigitazione facendo sparire ortaggi e finanche grosse spole destinate al telaio,  senza alcuna distinzione tra filati pregiati e scarti di filatura….

La mia sedia con le ruote è stata il precursore della Vita Indipendente. All’epoca in cui la filosofia promotrice dell’assistenza indiretta autogestita non era ancora approdata in Italia, la seggiola in questione ha svolto un ruolo liminare a quello dell’assistente personale (a qualcuno non venga in mente, ora, di rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro per denunciarne la mancata assunzione!).

L’introduzione, sul piano sociale, della figura dell’assistente personale ha rappresentato un’importante evoluzione, il riconoscimento del valore dell’indipendenza.

Ecco perché reputo grottesco il fatto che nel nostro Paese non si investa più nella Vita Indipendente che nell’istituzionalizzazione, e si fatichi a considerare l’assistenza autogestita un modello di welfare migliore del ricovero nelle RSA*, giacché la Vita Indipendente è l’unico modo per garantire dignità e pienezza ad un’esistenza che altrimenti, confinata in una Casa di Cura, non si spingerebbe più in là della mera sopravvivenza. 

*Residenze Sanitarie Assistenziali

L’irrequietezza di zingara.

Il racconto non può dirsi concluso finché non si spinge dai rigidi ingranaggi di una giostra oltre le rive della Saone, ben oltre lo spartiacque che separa l’odierna struttura urbana dalle vecchie mura della città.

L’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore.

Ci eravamo lasciati in Place de la Republique ad osservare i bambini su una giostra, sotto un cielo cupo e minaccioso. Ciò che non avevo detto era che quell’orizzonte grigio incorniciava la città, ne era lo sfondo perfetto. Il contrasto con le sfumature rosa e ocra dei palazzi, con le vernici rosso vivido dei portoni, con il verde scuro dei dehors ne facevano una condizione imprescindibile.

Attraversando Rue de Brest, mentre quest’intuizione cromatica si andava facendo certezza, Israr, con una sicumera inattesa, si era lasciato sfuggire di bocca il proposito di trasfervisi dopo la laurea in Ingegneria. E aveva continuato a ripeterlo a voce alta sopra il ponte che da Rue Grenette conduce alla Vieux Lyon. Oltrepassato il ponte, invece, era tornato a blandire la fantasia erotica d’oltralpe, arricchendola di dettagli dal fascino rinascimentale. Stefania ed io, nel frattempo, avevamo trovato una tabaccheria ed eravamo entrate per acquistare un adattatore di presa elettrica, ché le prese dell’hotel non erano compatibili con il caricabatterie della mia carrozzina (trascinarla lungo le strade lastricate di porfido era un’eventualità da scongiurare con ogni sorta di ammennicolo apotropaico umanamente concepibile). Sicché, disposte a pagare una cifra esagerata per un pezzo di plastica, eravamo uscite dal negozio con il nostro agognato bottino e con 10 euro in meno nel portafoglio.

Davanti a noi, uno stretto vicolo invitava a percorrerlo. Proprio come i bambini di poco prima ci incuriosiva e affascinava la traiettoria; quell’incanalarsi della città in uno spazio angusto risucchiava i nostri pensieri, monopolizzandoli.  È stato lì, di fronte all’insegna luminosa di un locale che prometteva spettacoli per adulti che il senso del viaggio ha iniziato a prendere forma: l’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore. Non esisteva – dubito sia mai esistito –  un modo giusto o sbagliato per farlo; si dovevano soltanto mettere in fila i passi, uno dopo l’altro, con voluttà…