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Seduta!

La leggenda metropolitana vuole che da bambina io fossi mite e docile, ma nell’attribuirmi siffatto spirito di abnegazione non dà merito alle fantasiose turpitudini del seme di Satana che incarnavo pur se dipinta come la Madonna dell’Umiltà di Gentile da Fabriano. Ogni racconto della mia infanzia finisce sempre dove è iniziato: se comincia con me seduta su una poltrona, finisce con me seduta sulla poltrona; se comincia con me seduta su una sedia con il sedile sfondato e lo schienale sbilenco tenuto su da una vite arrugginita a cui basta un soffio di vento per farlo crollare, finisce con me seduta sulla stessa sedia che, pur se prossima allo sfascio, non ha subito il benché minimo danno e rimane lì a farsi beffe del rigattiere, stoica e orgogliosa come un veterano al pensionamento. In un modo o nell’altro, infatti, la narrazione giunge costantemente a millantare una mansuetudine al limite della letargia.

Tuttavia, com’è chiaramente comprensibile, la ragione per cui mi ritrovavano sempre nello stesso posto in cui mi avevano lasciata era ben lungi dal riflettere una presunta vocazione…anche perché, in quel caso, sarebbe stata d’uopo una visita psichiatrica o al limite un esorcismo.

Ebbene, quando mio padre e mia madre si rassegnarono a comprarmi una sedia a rotelle, io provai la stessa meraviglia di colui (o colei) che inventò la ruota. Ecchecazzo! Finalmente potevo arrivare al frigorifero a rubare la maionese all’ora del coprifuoco, ovvero quei sessanta minuti prima di cena nei quali rovinarsi l’appetito con un cracker era considerato vilipendio alla bandiera, figuriamoci ingurgitare un tubetto di maionese con la stessa foga con cui un asmatico si avventa sul broncodilatatore.

Ma dicevo dell’emancipazione, finalmente potevo muovermi a fianco degli altri e non più in braccio ad uno di loro! Non ci sarebbero mai più state scarpinate a cavalcioni su qualche dorso o fianco che si prestasse a farmi da marsupio; non avrei mai più dovuto gettare le braccia intorno al collo di qualcuno per attraversare il salotto o per uscire sul terrazzo, aggrappata a lui come un koala al ramo. Inoltre, crescendo ho potuto sviluppare la percezione di me in uno spazio ben più ampio del metro quadrato che occupava la sedia. Soprattutto non sono mai più stata dimenticata in qualche luogo…Screen-Shot-2014-05-11-at-9.05.54-AM seduta su qualche trabiccolo; nessuno è più venuto a recuperarmi in palestra dopo che, terminate le due ore di matematica, si era accorto che non ero tornata in classe alla fine dell’ora di educazione fisica, nessuno mi ha più dimenticata sull’autobus per poi venirmi a recuperare al capolinea, o scordata accanto alla salma della prozia Pia, che pia non era perché, a furor di popolo, pare che avesse gli sfinteri più famosi di tutto il paese e che riuscisse a fare certi giochi di prestidigitazione facendo sparire ortaggi e finanche grosse spole destinate al telaio,  senza alcuna distinzione tra filati pregiati e scarti di filatura….

La mia sedia con le ruote è stata il precursore della Vita Indipendente. All’epoca in cui la filosofia promotrice dell’assistenza indiretta autogestita non era ancora approdata in Italia, la seggiola in questione ha svolto un ruolo liminare a quello dell’assistente personale (a qualcuno non venga in mente, ora, di rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro per denunciarne la mancata assunzione!).

L’introduzione, sul piano sociale, della figura dell’assistente personale ha rappresentato un’importante evoluzione, il riconoscimento del valore dell’indipendenza.

Ecco perché reputo grottesco il fatto che nel nostro Paese non si investa più nella Vita Indipendente che nell’istituzionalizzazione, e si fatichi a considerare l’assistenza autogestita un modello di welfare migliore del ricovero nelle RSA*, giacché la Vita Indipendente è l’unico modo per garantire dignità e pienezza ad un’esistenza che altrimenti, confinata in una Casa di Cura, non si spingerebbe più in là della mera sopravvivenza. 

*Residenze Sanitarie Assistenziali