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La palude.

C’è un luogo buio dentro di me. Oscuro come l’interno della serratura, cupo come l’ombra sotto i passi.

Non è semplice assenza di colore, bensì mancanza di prospettiva: un buco nero in cui la luce converge e ne resta intrappolata. È un’oscurità turpe, sporca, non è il buio limpido della cecità, tanto meno una colpa da assolvere.

Il buio che abita in me divora tutto ciò che lo circonda. Non ha dimensione, né forma. Non è un vuoto, ma non ha nemmeno una massa. La tenebra che se ne sta annidata nel groviglio delle viscere non è un cancro, né un morbo. Non ha alcun legame di sangue con me. Eppure è figlio.

Lentamente, anno dopo anno, questo piccolo germe appesantito dai miei geni non si è fatto carne, ma carnaio. Ha mandato a marcire in profondità insondabili tutto ciò che gli passava accanto: visioni, fremiti, sogni. Li ha ingoiati come al culmine di un amplesso, ma senza voluttà. Si è fatto gola per rinnegare il ventre, e si è fatto tomba per dissacrare il seme.

Niccolò mi osserva torvo, seduto sulla poltrona di velluto grigio: “Per quale motivo la vita di qualcun altro dovrebbe essere più importante della nostra?” Abituato a seguire la linea retta della ragione, si trova spaesato di fronte alle circonvoluzioni dell’intuito. Quest’ultimo ruota su se stesso intorno al proprio asse mentre svolta senza sosta. S’attorciglia, inverte la rotta, si fa strada serpeggiando. Niccolò non è un tipo da onde; lui trova pace soltanto nella fredda stabilità di un piano. “Perché qualcuno dovrebbe preferire il tuo bene al suo?

In lui ogni pensiero è un segmento delimitato da due punti fermi, immobili. È fissità che stride con il moto dei corpi celesti e con il perpetuo, ciclico rinnovarsi della vita su questa terra.

“Non è abnegazione ciò che vado cercando” intervengo stizzita, mentre l’ira raccoglie in gola le parole, le schiera come soldati. “Non ci sono le grate di una cella, né gli anelli di una catena nei miei disegni. Non proverei alcuna soddisfazione dal confinare in una gabbia un animale selvaggio. Vorrei che si avvicinasse per avermi accordato fiducia e che mi restasse accanto per il legame che è andato rafforzandosi tra i nostri cuori di randagi. Il mio – che è una puttana a cui tutti si rivolgono per un’ora di attenzioni per poi dimenticarsene in pochi minuti- è pure lui spaurito e diffidente, se ne sta rannicchiato sotto il costato e quasi si spezza ad ogni addio. È un cuore che nel tentativo di indurirsi si è scheggiato e ora è un cuore incontinente, trabocca.

Non riesco a frenare la voce, condurla al silenzio. “È un cuore indifeso, senza più corazza. Permeabile. Pregno di emozioni asperse nell’aria e che lo penetrano per osmosi, senza alcuno sforzo, fondendosi a quelle germinate nel sangue. Questa mistura goccia dopo goccia si è fatta torbida, fondo di palude. Chi ci passa distrattamente accanto non vede altro che lordura e temendo di insudiciarsi ne prende le distanze.”

Niccolò si sporge in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia e unendo le mani sotto il mento. I suoi occhi non sono più così distanti. Il buio dentro di me ingoia anche loro.

Il gelo e il fuoco.

Durante il tragitto in auto mi soffermo sul contrasto tra le luci delle case e il buio che le circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione non è quel mosaico di luminarie che costella il paesaggio, bensì la tenebra. Quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi, riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.

La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.

14 febbraio 2017.

Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno.  Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: “Un giorno mi ucciderò.”

I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi a sottolineare che quella appena udita è una voce scaturita dall’ugola più che dall’anima. E l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.

Niccolò, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: “Che stai dicendo?”

Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.

Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di anice e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.

Esistono due me.” Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: “Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non disturba.”

Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.

Incalzo: “L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?” domando “Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?

Li osservo. Diego ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.  “Mi ucciderò. Tuttavia, stasera non vi dico quale delle due.”

Dopo un momento di silenzio, Niccolò prende la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: “In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano…” Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. “Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati.” mi affretto a suggerire.  A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.

Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.

L’abisso

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – inutili ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Il cinquanta per cento dei miei amici abita il crepuscolo.

“Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte.”

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri.

“Lo avevo intuito.”

Avvicina le mani, le pone congiunte sulle ginocchia: “Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…”

“E invece s’è fatto incendio sotto la cenere” mi affretto a concludere.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

“Leggevamo insieme, ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.”

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti e ci si fa stretto attorno come placenta.

“Mi fa strano” provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento “che qualcuno ancora avviluppi l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.”

Ascolta senza batter ciglio.

“Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti che tutti gli stupri subiti poi, han preso il sopravvento. Vedi, ora per me una vagina è una fica e tu ti fai rosso in volto quando mi senti parlare così. Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci.”

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

“E poi mi son convinta che il tempo non sia più a mio favore. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze. Ecco, io di affetti sento di averne così pochi che il sapere che a loro il futuro è ancora più nemico mi strappa gli occhi e il cuore.” Bevo, poi proseguo: “L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero sulla mia fica e su Giovanni che un pomeriggio della scorsa estate l’ha cucita, lembo contro lembo, e da allora ogni pensiero su di lei è di carezze e di soffi, e non più di amplessi.”

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Pendenze.

Quando la porta si apre, ad entrare è un vento gelido che giunge dal nord e porta nevischio e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo, da mesi. E non tocco una penna, da mesi. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi dovevo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per sentire un po’ di calore. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.

“Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…” mi confida, esortato ad essere onesto.

“Di questo ti ringrazio. Ora voglio pensare soltanto al mutare delle stagioni.”

Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.

“Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita…” si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. “A volte mi pare di capirti, ma poi mi accorgo che non è così, che ho proiettato su di te sentimenti ed emozioni che sono più miei che tuoi.”

Mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il té verde e subito un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza. Niente di più.

“Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle. Ora non mi interessa più.”

Non ho più scritto perché non ho più toccato corpo. “Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?”

Solleva lo sguardo dalla tazza e mi fissa.

“La vorresti una con la fica infitta e la linfa che dopo aver nutrito le fronde scivola lungo i vasi dentro un sacchetto? La vorresti una che finge di fregarsene ma che in realtà soffre? Ecco, io non sono pronta.”

Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro.  Appena poco più a lato della siepe un pettirosso fruga con il becco tra la neve. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.

Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti essere volgare!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E lui questo lo ignora.

Il fluido della metamorfosi.

Il ricordo è così nitido che pare di riviverlo, eppure è già trascorso un mese. Lei è entrata nella mia camera con una sicumera da caterpillar, sventolando il camice bianco ad ogni passo: “Fattene una ragione, questo potrebbe essere il tuo futuro!” Ha scaraventato un pesante punto esclamativo nella stanza e se ne è andata, mentre l’opulenta affermazione cercava, scricchiolando, un equilibrio tra il pavimento e la porta. Se ne è andata lasciandomi in lacrime e senza conforto. La questione che, sì, era stata messa a tacere da un perentorio segno di punteggiatura, continuava ad essere una faccenda di tubi che penetravano in profondità, intersecavano il corpo, aprivano e svuotavano. E restava anche una questione di emozioni che, seguendo lo stesso ciclo, penetravano, intersecavano, aprivano e svuotavano. Fica e cuore. Muscolo e cervello. Ricordo di essermi sentita stuprata. E ricordo di aver compreso solo più tardi, dopo aver affrontato con lo spirito di una vittima quel carosello di mani e di guanti e di gambe aperte – e di tubi, certo – che quel punto esclamativo – un fallo, un’erezione – era stato realmente un abuso.

Oggi al CTO di Torino, ho ricordato il camice bianco dell’Unità Spinale del Niguarda. Ho ricordato non per analogia, semmai per contrasto. Il medico del CTO ascolta, spiega, risponde alle mie domande. Con pacatezza. E infine rassicura: “Si prenda il tempo necessario per decidere il da farsi. Sarà sempre solo lei ad avere l’ultima parola sulla terapia che intende seguire.

Dalla scorsa estate la mia vita è di nuovo cambiata. Drasticamente, come sempre.  Un mattino mi sono svegliata e tutto non era più lo stesso. E poi la corsa in Pronto Soccorso, le settimane in ospedale. E il cambiamento aveva anche fare con qualcosa che veniva da dentro, come i sentimenti. Solo che aveva una consistenza, un colore: aveva a che fare con la nostra matrice, l’elemento essenziale alla vita, l’acqua. Il fluido della metamorfosi. Il mio vissuto non conosce mezze misure, è sempre un tutto bianco o tutto nero. Come i miei sentimenti, d’altronde. Tanto che verrebbe facile convincersi che il veto a una giusta proporzione sia scritto nel codice genetico.

Forse per questo non appoggio quel tacere diplomatico e borghese che è dei salotti e non dell’agorà. E, quindi, non taccio. Ché il medico non deve mai sostituirsi al boia. Altrimenti non è più medico bensì, appunto, un tagliagole. In quella questione aggrovigliata di tubi e di emozioni, esigo una voce che sappia spiegare anziché imporre, degli occhi che sappiano vedere anziché raggelare, una conoscenza volta a comprendere prima che sentenziare.

C’era il sole, quel giorno su Milano. Oggi, invece, su Torino grava un cielo grigio e denso. Era un giorno di fine estate, ancora tiepido e piacevole, quello. Oggi, invece, l’autunno entra nelle ossa, sferza la carne. Eppure oggi non ho desiderato morire.

Dopo di noi: l’inganno.

Mentre il mio vicino di casa canta a squarciagola: “Parlami d’amore Mariuccia, prendilo tutto nella boccuccia” – a lui piace esprimersi con parole sue, non ha imparato a memoria nemmeno il numero civico della casa in cui vive – io provo a leggere il testo di quella enorme porcata che è la legge del Dopo di Noi. E via via che le parole scorrono davanti agli occhi, sempre più asfissianti, esiziali, mi ritrovo a constatare il degrado del nostro paese. Penso a quanto sia caduto in basso, affossandosi per la mentalità retriva che ne pervade le politiche sociali. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti i principi costituzionali che sanciscono la libertà di tutti i cittadini? Con questa legge che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, con questa legge criminale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Il trillo del microonde mi ricorda che l’infuso all’arancia e zenzero è pronto. Non ho mai abbastanza pazienza per mettere l’acqua a scaldare nel bollitore, meglio le radiazioni elettromagnetiche ad alta frequenza. “Ma quale tisana!” penso avvicinandomi al tavolo “passami la bottiglia del rum…” Sono le 4.00 del pomeriggio ed io ho bisogno di alleggerirmi i pensieri con l’alcool tanto quanto la bevitrice d’assenzio di Degas. La mia assistente versa due dita di rum nel bicchiere e lo annacqua con uno spruzzo di cola, poi si congeda.

Torno alle mie ruminazioni. Vedo: con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche, il legislatore ci ha rispediti nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

frogs-1347637_1920Al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Una legge ci ha appena riportati nel rinascimento, tacciati dalla buonanima di Gregorio Magno di essere anime maledette e pertanto anime da tenere distanti, segregate in appositi lazzaretti sociali per rimarcare la netta distinzione tra sani e malati. Una legge approvata il 14 giugno 2016 ci ha rimesso al collo la campana degli appestati e ha anteposto ai nostri dati anagrafici lo status di emarginati.

Lui, che mi ascolta come si ascolta la geremiade dietro la grata di un confessionale, gesùreplica: “Guarda che le lussuriose finivano nei manicomi…” Prosegue “A Gesù non piacciono le donne di facili costumi. O no?” Lo scruto perplessa. Allora, mi mostra un’immagine sul telefono: un’iconografia grottesca di un Cristo con una pin-up in grembo. Sorrido.

“Ti senti Gesù?” sto al gioco.

No, ma seguo il suo esempio.” replica prontamente, facendo eco agli insegnamenti dell’oratorio e dell’adolescenza volata tra le tuniche dei gesuiti. “Vuoi sdraiarti sulle mie ginocchia?

Rido. All’istante, la mente evade dalla cella in cui immagino il mio corpo, sguscia attraverso le grate della prigione in cui la si voleva ieri per ragioni divine e in cui la si vuole oggi per ragioni economiche. Mi immagino libera.

E chi non vuole comprendere l’importanza di anteporre il “durante noi” al “dopo di noi”, chi non riesce a intravedere il trucco dietro quest’opera di prestidigitazione che tutela gli interessi delle lobby assicurative e delle lobby del sociale anziché delle persone con disabilità, chi non comprende che quel spedirci “in gruppi appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare” è un atto di deportazione nudo e crudo e che per deistituzionalizzazione s’intende il poter restare a casa propria e non il venire destinati a case famiglia, ebbene chi non comprende tutto ciò si merita il legislatore e le sue lordure. E anche un dio debosciato.

 

Cogito ergo dubito.

Quando giunge l’ora del crepuscolo e dietro i tetti delle case il cielo avvampa, quel trovarmi alla finestra con il naso a un palmo dal vetro – intenta a soppesare i pensieri – ricorda la mia vita  e i suoi scenari ascosi, sempre camuffati dietro un tramezzo, una quinta, una coltre di nubi. Si distinguono le lunghe ombre della sera sotto la volta che brucia, ma non si riescono a scorgere l’universo e il suo silenzio oltre quel fuoco. Nemmeno ne si intravede uno scorcio finché le fiamme non si spengono. Eppure, dietro la pira incandescente su cui il cielo dà il suo commiato al giorno il buio più nero  è lì da miliardi di anni. In assoluto silenzio.  Un silenzio che non è assenza di suoni bensì impossibilità ad udirli. Lui si porta alla bocca una pesca, la odora rigirandola nella mano, la stringe tra le dita. “Hai sospeso ogni giudizio?” domando e la risposta non tarda a venire: “Sì, a un filo di rafia annodato al soffitto. Ora oscilla come un pendolo.” Ride.teddy-1361396_1920

Discutevamo di quel nostro schierarci come bambini sempre dalla parte dei giusti. Discutevamo di quella personale idea di giustizia che ci rende migliori agli occhi dello specchio. Non un inganno, più una svista. Discutevamo del nostro sentirci figli. “A guardar bene” interviene “ci han concepiti vicino a una cloaca. Eppure, fingiamo di essere frutti anziché escrementi.

Ne perdono l’impertinenza. All’istante. E accosciati sopra il buco del culo del mondo continuiamo a discutere su quale sia il centro dell’Universo.

Mi torna in mente, per assonanza, il primo perdono della mia vita. O meglio, il primo di cui conservi memoria. La prima assoluzione, la remissione dei peccati che blandiva l’ingenuo spirito di bambini. Ad amministrare il perdono era il Bene, un uomo canuto, chino su se stesso, con le mani rattrappite sulle pieghe di una pesante tonaca. Il Bene aveva occhi affaticati, velati da due fila di lunghe e folte ciglia; occhi umidi, pregni di lacrime, occhi di vecchio. Odorava di stoffe lise e usate, di magazzino, di sacrestia. Nell’alito ne avvertivo il timbro acre dell’incenso, ma forse era il lezzo della marcescenza. Quando si avvicinava per impormi il perdono di Dio, gli vedevo l’intreccio delle vene sul dorso delle mani e la peluria più rada sui polsi.  Aveva mani calde, anche in inverno, e mi soffiava in faccia un’assoluzione intrisa di afrore di candeggina, di muffa e, come ho detto, di marciume. Il Bene mi stringeva in un abbraccio asfittico e appoggiava il molle ordito del volto contro la mia guancia, allora respiravo un odore di gesso polverizzato che a confronto l’aria satura di pulviscolo dentro la gipsoteca di nonno pareva limpida. “Io ti perdono” e le parole risuonavano di una grazia imprevista. Ma la sensazione di mangiare gesso spezzava, con un rumore sordo di cibo che si sbriciola, il mio entusiasmo di redenta. Il Bene puzzava come un moribondo dalle carni infette, e quel sentore di lavagna sporca di scarabocchi scavava il petto, rigirava lo stomaco.

Quale paradosso la confessione dei peccati!” penso ad alta voce. Il richiamo primordialetomb-546915_1280 di Pan è sempre stato una voce millenaria incrostata di magma, un ribollire di forze sotterranee, irresistibile. Lui apre la finestra e si affaccia per gettare oltre la siepe il nocciolo della pesca. Poi socchiude le imposte. Nella stanza vortica un profumo di gelsomino frammisto all’afrore di letame che giunge dalle cascine dall’altro lato del paese. Si avvicina con fare mesto e appoggia le mani sulla mia testa, sopra i capelli che si stanno infoltendo di filacci bianchi.

La penitenza quale sacramento, come direbbe il marchese De Sade” ride “Invece dell’ostia, masticherai il seme!” Sicché, lungi dal credere che saremmo diventati una sola carne agli occhi di Dio, ho allungato una mano verso di lui e riaperto gli occhi sulla mia vita: un cielo infuocato che disperde nel vento le ceneri dei morti. E oltre, l’Universo.

 

Le seghe di Alessandro.

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. Solo che, certe volte la mia non è propriamente voglia di essere dentro a qualcuno, bensì è più voglia di avere dentro qualcuno. Le romantiche paladine della maternità spengano all’istante quel baluginio commosso della pupilla che compare ogniqualvolta annusano nell’aere il desiderio di un figlio, si ricompongano: la mia è solo voglia di cazzo. E non ci intravedano alcunché di sentimentale, non ho intenzione di personificare un pene mettendolo metaforicamente in sella a un purosangue ed equipaggiandolo dell’armatura che spetta ai nobili cavalieri. Ho solo voglia di qualcosa che mi si muova dentro e che nulla abbia a che vedere con l’amore. Ché a forza di sentir le viscere aggrovigliarsi per le emozioni m’è venuta voglia di sentirmele sbattere unicamente per il sesso.

L’amore non c’entra nulla, giacché l’amore che arriva è sempre guercio e monco che a gnu-161341_1280guardarlo ti vien pena per lui e ti sovviene di concedergli la precedenza in ogni dove, finanche alle casse del supermercato. E a forza di starci appresso, di cercarlo negli occhi della prima bestia in fregola che tra le lenzuola ha, sì, promesso le stelle ma che è sparita alle prime luci dell’alba, s’è rivelato un feticcio, un ammennicolo oggetto di ammirazione fanatica. Allora, lungi dal finire miseramente a peccare d’idolatria per una carcassa bovina sifilitica anziché per un vitello d’oro – il peccato va compiuto come dio comanda, altrimenti l’offende – del toro meglio venerar solo le pudende.

“Sicché Aristotele prescrisse ad Alessandro di trastullare il membro?” domanda divertito. Poi prosegue: “Certo che quel Lazzarin è proprio un genio! Io non riuscirei a formulare mezza frase usando parole che iniziano tutte con la stessa lettera, figuriamoci scrivere un intero racconto…” Allunga una mano per toccarsi la fronte: “Come s’intitola il tautogramma? Uhm, ecco…sì: affaticamento all’avambraccio!

“Adesso argomenteremo attorno agli effetti – affermò Aristotele avvicinandosi adagio ad Alessandro. Allenati, abituati all’autoerotismo…*” cito, mentre la sua mano è già scivolata dalla fronte alle cosce.

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono sundress-336590_1920ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie. Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.

“All’amicizia aggiungiamoci attrazione: avvertiremo appetiti ancestrali, aspireremo ad accoppiarci.*” annuncia, interrompendo il flusso dei pensieri. Gli sono grata per l’interludio, per quel suo adoprarsi che ricorda gli steli d’erba nell’estate dei miei vent’anni.

 

* “Affaticamento all’avambraccio” di Walter Lazzarin. http://scrittoreperstrada.blogspot.it/

 

 

Rigurgiti.

Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale. E per tornare, lui è tornato. Solo che…

Solo che non è stato il ritorno del figliol prodigo. È stato più un rigurgito, un trabocco casuale .
D’altra parte, in questi mesi di latitanza, mi ha lasciato tutto il tempo per smaltire la vena romantica che tempo addietro avrebbe perdonato ogni assenza, giustificato l’indifferenza e finanche visto in un suo rutto una dichiarazione d’amore, al limite del masochismo e della vanità cognitiva. Ora, che vedo il silenzio per quel che è, ossia semplice menefreghismo, non gli ricamo più sopra un romantico e penoso esilio con la stessa ragione d’essere che avrebbe nella Verona dei Montecchi e dei Capuleti l’esilio del passionale Romeo.

Ma torniamo al riflusso e al quell’improvvido risalire controcorrente.

Arriva un messaggio su #WhatsApp: “Il kebab più vicino qui è a trenta chilometri.”tarot-991041_1920

“‘mbè, mangia un’insalata. Detto questo, chi sei?

“Guarda il prefisso telefonico e indovina!

“Aspetta che prendo i tarocchi e vediamo che cosa suggeriscono…”

Segue un silenzio imbarazzante. Forse, è rimasto in attesa del responso della divinazione.

“Sei Filippo?” (Naturalmente non gli dirò mai che il suo nome era comparso nella notifica del messaggio)

Yeah!

Eravamo rimasti che avresti sollevato me e la mia carrozzina con una mano, giacché a forza di spaccar legna ti erano venuti i bicipiti di Hulk Hogan. Eravamo rimasti che ti stavi industriando per portarmi a nuotare in mare aperto, in mezzo ai marosi. Poi, il nulla. Qualsiasi persona sana di mente – e non dotata della coppia cromosomica XX – avrebbe intuito che la sola spiegazione plausibile era la più semplice, come Guglielmo di Occam insegna: eri totalmente girl-1258739_1920concentrato su un’altra fica. Tuttavia, io – che la salute mentale ho barattato con la vena creativa, e che per natura sono geneticamente complessa – ti avevo creduto morto in un incidente d’auto, freddato da un fulmine mentre riparavi l’antenna in equilibrio sui tetti, perito per l’esposizione alle scorie radioattive durante una gita a Trino, in mezzo alle risaie del vercellese. Ho continuato a giustificare la tua assenza anche quando era ormai chiaro ai muri che ti stessi sbattendo un’altra, mentre io provavo a superare il lutto con il velo delle vedove in testa e l’album fotografico sul telefono trasformato in un tabernacolo.

“Qui è tutto surreale” confida, mentre per farmi accettare la desolazione in cui si è cacciato mostra fotografie di strade dissestate, sentieri brulli di terra rossa, zolle aride bucate qua e là da un arbusto che pare conficcato con artificio come il muschio nel presepe anziché cresciuto e nutrito da quella stessa terra, e poi tramonti su un orizzonte piatto, deserto, e albe ancora più solitarie. “Solo Jodorowsky saprebbe descrivere questi luoghi così… solitari” aggiunge. Ecco, ora mistifico la realtà: al posto di uno stronzo vedo uno spirito libero, un asceta che mortifica la carne lontano dalla civiltà, isolato dal resto del mondo. E inizio a pensare che allora erano necessari il silenzio e la solitudine, di certo anche la noia, per riportare di fronte ai miei occhi quelli suoi azzurri che ricordo così nitidi, al risveglio, in un mattino assolato della scorsa estate. Solo che ora, adombrato dal nero d’antimonio di altri occhi che in questi mesi hanno fissato i miei, quello che rivedo è un azzurro come tanti, certo un bel colore, ma ha perso quella sfumatura che lo rendeva unico, esclusivo.
Tuttavia, non voglio tacere. Se questo ritorno – fosse anche per evitarti uno sbadiglio – è figlio del silenzio, allora merita onestà e parole schiette.
Sai, il ricordo più intimo che ho di noi non è legato al sesso. Il momento che ricordo con più intensità è quello di una notte, appena rincasati dal lago, in cui tu mi hai aiutata a struccarmi, nel mio bagno, sotto una luce fredda di applique.
“Io ero così impacciato…”ricorda: “Hai fatto quasi tutto tu.” Poi sposta lo sguardo su un punto dietro le mie spalle: “Hai un nuovo coinquilino…”
Mi volto. Sì, la credenza indiana è un recente acquisto.
Finalmente, ora so che il mio non è stato un passaggio in ombra.

#Il rosso non è il nuovo verde

Esco di casa vestita come un ninja metropolitano: felpa nera, cappuccio sulla testa, occhi delineati da uno spesso strato di Kohl – che per i paladini del “boh” altro non è che Kajal secondo il vocabolario magrebino. L’eccitazione ramifica nelle vene, si contrae e si dilata all’unisono con il cuore, battito dopo battito. Mi sento libera. Ci sentiamo libere. Katarzyna, è tornata in Italia per sostituire la mia nuova assistente in congedo per motivi personali. Non la vedo da più di due mesi. A fine febbraio aveva rassegnato le dimissioni ed era rimpatriata per intraprendere una carriera di tutto rispetto – sostanzialmente, ha iniziato a frequentare un corso sulla preparazione della salma prima della sepoltura, il che instilla in me il ragionevole dubbio che vi sia un’associazione tra il lavoro svolto con la sottoscritta e l’aver maturato la passione per i cadaveri.

 Katarzyna è una ragazza silenziosa, discreta, per un certo verso timida, soggetta all’erubescenza del volto in odore d’imbarazzo, ma se c’è una cosa che non si può negare è la sua totale, imperativa e finanche congenita predisposizione al viaggio!  Prendere un autobus per recarsi in aeroporto, quindi affrontare due ore di volo, riprendere l’autobus per recarsi in stazione, affrontare altre due ore di viaggio in treno, quindi prendere la metropolitana e infine percorrere tre chilometri a piedi per arrivare da me, ha per lei lo stesso significato che per me ha svoltare l’angolo per andare a svuotare la pattumiera dietro casa.road-166543_1280 Un’inezia. Il suo arrivo mi ha regalato un buonumore sferzante, la promessa di una settimana randagia, succhiata al midollo; la sua presenza è foriera di vagabondaggio, partenze improvvisate, espatri dal quotidiano. Sicché lei è arrivata ieri e oggi è già pronta – fresca come una notte di settembre a queste latitudini – a guidare la mia auto per accompagnarmi oltralpe.

Il fato vuole, tuttavia, che un impegno improvviso mi costringa a raggiungere la collina torinese, con una notevole deviazione al percorso stabilito. Chi se ne frega! Anzi, chi cazzo se ne frega! Ho un’auto, un’assistente biologicamente programmata per divorare chilometri alla stregua di nutrienti, chi se ne…pardon, chi cazzo se ne frega della variazione al tragitto: un’insignificante sfumatura alla banalità monocromatica di ogni pianificazione.

Sopra le nostre teste, il cielo bigio pare solidificarsi in un preludio di pioggia. Ma c’è musica, c’è il serbatoio pieno di carburante, c’è lo zaino con una manciata di indumenti e due spazzolini da denti. Partiamo.E mentre il veicolo si avvia sulla traiettoria segnata dall’asfalto, ingoiandola come un avido fratello cannibale, il pensiero della pioggia si fa sempre più liquido, scende in profondità e alla fine rimane vittima di se stesso, annega. “Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente” annuncio a bassa voce, non perché voglia comunicarlo in sordina, bensì perché in questo momento una minuscola ma fatale scheggia di caramella all’anice si è conficcata tra la tonsilla e le corde vocali destabilizzando l’ugola. Katarzyna, che ha l’udito di una tarma della cera ma quando guida sotto la pioggia perde sensibilmente queste qualità da falena, orienta l’orecchio verso di me – che siedo dietro nella loggetta predisposta alla carrozzina come farebbe un purosangue nel box – e nel farlo ruota leggermente la testa.

In quel preciso istante la luce verde del semaforo si spegne e si accende quella rossa. Ma traffic-lights-1013506_1280noi siamo già oltre, nel bel mezzo di un incrocio dove iniziano a sfrecciare auto da tutte le direzioni, come fili di un ordito che si sta tessendo. E sempre in quell’istante, un’auto con a bordo due agenti della Polizia Municipale ci avvista. Uno di loro scende dall’auto e iracondo scarica addosso a Katarzyna tutta una serie di invettive finendo con il chiederle di accostare per poterle ritirare la patente. E qui entra in gioco il mio utilissimo culo poggiato su quattro ruote. “Io sono con persona disabile” esclama Katarzyna con la voce infuocata dall’ira. Allora, gli occhi azzurri dell’agente improvvisamente si pietrificano. Cerca di vedere aldilà del vetro oscurato, poi apre il portellone e si trova di fronte il mio sguardo implorante da gatta randagia strabica. Forse più per timore della Sfiga dell’Handicappata che per il fascino sortito dalla mia pupilla maliarda, l’agente desiste dall’intento. Ripartiamo.

Oggi è la giornata europea della Vita Indipendente. “Degna celebrazione!” esclamo mentre ricomincio a canticchiare un motivetto che ho in testa da qualche giorno.