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Febbraio 2016

Piove da questa mattina, dai comignoli s’innalza un fumo grigio che ha le stesse sfumature del cielo. Nessun rumore, oltre allo stillicidio sui vetri delle finestre. La sensazione di essere sola fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, ha lasciato spazio alla mestizia. Getto le chiavi di casa sullo scrittoio, accanto al notebook e alla tazza con l’infuso di ananas e pesca, e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. In un attimo non indosso più i miei panni e al muro affrescato di fronte a me antepongo il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

“Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi…” riecheggiano le sue parole nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo dell’estate, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere amata. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni mia ricerca: qualcuno che si prenda cura di me e lo faccia per amore e non per lavoro.

water-984495_1920Era stato, per un attimo, come se stessi per venire al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così ho iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che reggeva il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

“Ti porterò al largo!” aveva promesso: “Sto pensando a come prenderti.”

Allora a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal ventre fino alla gola, un’angoscia soffocante che riecheggiava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale premura non fosse stata altro che un modo per sentirsi il paladino di una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un volo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. window-372287_1920

Come dar loro torto? Il solo vincolo che mi tiene legata al mio corpo è l’impossibilità di sfuggirgli.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima.

Nella vita anche io ho viaggiato. Non quanto avrei voluto, ma ho viaggiato; a scegliere l’itinerario è stato, fin dall’infanzia lo spirito nomade che arde dentro questo mio corpo quasi immobile. E viaggiando ho voluto sperimentare tragitti talvolta impensabili e sovente preclusi, confidando in quell’anima irrequieta che non si è mai accontentata della cella organica in cui avrebbe dovuto vivere se non fosse stata più forte del corpo che la incarnava. E ho confidato, altresì, nella sorte, augurandomi di incontrare un corpo capace di comprendere quello che, potendo, avrebbe fatto il mio.

Quand’è che ho imparato a mettere il mio corpo nelle mani di un altro, non lo ricordo. Ciò che è rimasto impresso nella memoria è l’addestramento per riuscire a farlo. Anni di prove e di sconfitte. Per essere capace di metterti nelle mani di un altro devi cominciare a sentire il suo corpo. Devi entrare in quel corpo, amarlo come fosse il tuo. Ogni mano che ti tocca trasmette una sensazione mai sperimentata prima.

Le ricordo tutte. Le mani che mi hanno aiutata o che hanno preteso di farlo, le mani che mi hanno immolata, quelle che mi hanno resa vittima e quelle che mi hanno resa madre; le mani che mi hanno sollevata e quelle che hanno inflitto alla mia carne la geometria di una stigmate, quelle che ho amato e quelle che, per quanto piegate alla soddisfazione del mio piacere, non ho mai avuto.
Le ricordo tutte e ricordo di aver finto che fossero mie, che fossero più vicine di quello che erano, anche se erano già conficcate nella carne o affondate nei miei umori; ho finto che fossero per sempre e che, affrancate dal giogo del tempo, non avrei mai dovuto dimenticarle, né sostituirle. È stato così anche per le mie mani, quando ne ho visto la forza venire meno fino a dissolversi come la pittura dentro il solvente. Ho finto che le avrei ritrovate, che nulla era perso per sempre…

Se il sesso svelasse l’Universo?

Torno a scrivere su queste pagine dopo un’assenza di qualche mese. Non vi racconterò dei motivi della mia lontananza, né delle cicatrici che ancora conservo.

Vi svelerò, invece, di aver sperimentato la mia vena narrativa e l’intimità delle mie visioni erotiche. E non vi terrò nascosto, nemmeno, di averlo fatto su Loveability.it, sito web gestito dall’amico Maximiliano Ulivieri e che forse molti di voi conoscono.

La scrittura mi è stata d’aiuto in molteplici circostanze; la penna ha scandagliato gli abissi del mio spirito, più di quanto avrebbe fatto qualsiasi altra forma di contemplazione e di analisi.

Pertanto, desidero metaforicamente battezzare il mio riavvicinamento al blog e il sodalizio con Loveability, proponendovi lo scritto che più ho a cuore.


“E se il segreto dell’Universo avesse a che fare con il sesso?” ci si domanda nel lungometraggio dedicato alla vita dell’astrofisico Stephen Hawking. Considerato il flusso di eventi che ha segnato la mia vita, potrei affermare di essermelo chiesto anche io, più di una volta.

Talvolta salgo all’Osservatorio astronomico, lungo la strada ombrosa che s’inerpica sulla collina tra le abitazioni lussuose e il fogliame fitto. Mi sento un pellegrino che risale la china per raggiungere l’eremo. E, curva dopo curva, mentre si cominciano a intravedere le cupole dell’Osservatorio, il pensiero dell’intimità sperimentata con il cielo si trasforma in una fissazione: dal creato al Creatore, dal Big Bang al coito, l’origine del Tutto.

Vi ho raccontato degli anni maledetti, dell’infanzia scivolata fuori dal sesso acerbo di bambina e lasciata maturare tra le cosce, come un aspro gheriglio di noce ricoperto dal mallo o come un feto ravvolto nella placenta. L’incubazione è, in fondo, crescita. Quel tempo è lontano ormai, eppure ne ricordo il tremore di uccello implume, il miraggio e la seduzione del volo, la frattura irregolare sul guscio dopo la schiusa, l’albume mischiato al sangue che ha battezzato il mio ingresso nell’adolescenza. Il primo sangue. Il dolore che ha aperto la strada al piacere. Come la marea, la prima mestruazione ha riempito il ventre di fluido tepore e poi lo ha riversato fuori dalle carni, in quel fazzoletto di continente sottomesso all’influenza della luna. Il sangue scandiva i mesi ed io mi avvicinavo all’età adulta con passi lunghi e svelti.

Sempre in quegli anni, ho scoperto l’ascendente che esercitavo su taluni, uomini perlopiù, un oscuro, misterioso interesse risvegliato come per gioco. Uno di loro, in particolare, mi sovviene ogni qualvolta ripenso a quell’epoca antesignana. Lo vedevo un paio di volte a settimana, sempre alla stessa ora. La mia famiglia lo aveva assunto per aiutarmi a tenere allenati gli scarni muscoli già indeboliti dalla malattia. I trattamenti duravano sempre più del previsto, e dalla porta chiusa della stanza in cui lui non voleva ci disturbassero, si udiva solo un persistente, denso silenzio. Nessuno ha mai osato violare quel divieto, oltrepassare l’uscio. Nessuno ha mai nemmeno indugiato dietro la porta, origliato, atteso che giungesse un invito ad entrare o, semplicemente, che si riuscissero a distinguere rumori e voci all’interno della stanza. table-443803_1920

Perché la stanza era un luogo sacro, il tempio destinato a un culto, uno spazio consacrato al sacrificio. Sopra il grande tavolo su cui lui mi faceva sdraiare, il mio corpo bruciava come l’incenso dentro il turibolo. E sempre sulla dura superficie del tavolo in legno di ciliegio, il sottile sigillo alla mia inviolabilità si era spezzato come l’ostia tra il palato e la lingua. Ricordo che al principio ho provato fastidio, un’avversione nauseante al divenire adulta.

Sopra il tavolo era sempre adagiata una lunga tovaglia bianca di lino: ne ricordo il tocco fresco sulle cosce, e ricordo che quando lui le dischiudeva, la pelle sfregava la stoffa ruvida e il fastidio avvertito sull’epidermide si confondeva con quello percepito dalla mente. E ricordo il giorno in cui, dopo aver sollevato la tovaglia in modo da non sporcarla, mi aveva trascinata verso di sé sulla superficie fredda del tavolo, prima di spingere la mano ad esplorare la mia verginità.

“Matilde, nessuno capirebbe. Resti il nostro segrecandle-110724to!” Confidando nel mio silenzio aveva tentato una carezza, come se questo fosse stato sufficiente a farci sentire complici. Lo aveva fatto con vergogna, tentennante. Poi era uscito dalla stanza e dalla mia vita. Avevo tredici anni e, in modo del tutto inatteso, stavo scoprendo il potere del corpo. Del mio corpo, impigliato nel groviglio esistenziale che mai nessuno, fino a quel momento, era mai riuscito a dipanare.

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