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Il gelo e il fuoco.

Durante il tragitto in auto mi soffermo sul contrasto tra le luci delle case e il buio che le circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione non è quel mosaico di luminarie che costella il paesaggio, bensì la tenebra. Quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi, riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.

La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.

14 febbraio 2017.

Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno.  Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: “Un giorno mi ucciderò.”

I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi a sottolineare che quella appena udita è una voce scaturita dall’ugola più che dall’anima. E l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.

Niccolò, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: “Che stai dicendo?”

Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.

Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di anice e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.

Esistono due me.” Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: “Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non disturba.”

Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.

Incalzo: “L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?” domando “Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?

Li osservo. Diego ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.  “Mi ucciderò. Tuttavia, stasera non vi dico quale delle due.”

Dopo un momento di silenzio, Niccolò prende la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: “In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano…” Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. “Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati.” mi affretto a suggerire.  A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.

Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.

Pendenze.

Quando la porta si apre, ad entrare è un vento gelido che giunge dal nord e porta nevischio e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo, da mesi. E non tocco una penna, da mesi. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi dovevo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per sentire un po’ di calore. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.

“Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…” mi confida, esortato ad essere onesto.

“Di questo ti ringrazio. Ora voglio pensare soltanto al mutare delle stagioni.”

Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.

“Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita…” si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. “A volte mi pare di capirti, ma poi mi accorgo che non è così, che ho proiettato su di te sentimenti ed emozioni che sono più miei che tuoi.”

Mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il té verde e subito un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza. Niente di più.

“Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle. Ora non mi interessa più.”

Non ho più scritto perché non ho più toccato corpo. “Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?”

Solleva lo sguardo dalla tazza e mi fissa.

“La vorresti una con la fica infitta e la linfa che dopo aver nutrito le fronde scivola lungo i vasi dentro un sacchetto? La vorresti una che finge di fregarsene ma che in realtà soffre? Ecco, io non sono pronta.”

Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro.  Appena poco più a lato della siepe un pettirosso fruga con il becco tra la neve. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.

Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti essere volgare!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E lui questo lo ignora.