La gonna di legno.

Come in un’altra storia – quella di evangelica memoria, forse meno autentica ma, di certo, più famosa – l’avere un padre falegname non è un fatto scevro di conseguenze.

Posso dire, con una punta d’orgoglio, di essere cresciuta abituandomi a forgiare ciò che la Natura aveva dimenticato, e a far di necessità virtù nel costruirmi, come fa il falegname da un pezzo di legno, qualsivoglia strumento in grado di rendermi libera. Così ho modellato la mia disabilità sui miei desideri, trasformato l’handicap in uno stimolo all’indipendenza; ho dato forma al destino.

Certo, in taluni frangenti il legno si è rivelato una presenza ingombrante – che dir si voglia, il falegname ha brillato d’iniziativa ma peccato in stile – come, ad esempio, accadde  quando, trent’anni or sono, chiesi a mio padre un abito con la gonna scozzese in regalo, e lui rispose con concitazione: “Te lo faccio io di legno!” aggiungendo in coda all’enfasi: “Che, almeno, ti tiene più dritta…” Con il senno di poi ad accettarne l’offerta ci avrei guadagnato, tuttavia, lì per lì, misi su un’espressione talmente corrucciata che anche quando il volto mi tornò disteso pareva ci fosse la mappa del Turkmenistan stampata sulla fronte. 

In età scolastica, poi, la produzione lignea raggiunse il suo massimo splendore: rialzi da infilare sotto il banco quando seguivo le lezioni in piedi per allenare la muscolatura, leggii di diversa altezza, custodie per matite, righelli, goniometri e squadre. Sempre in quegli anni, videro la luce i condomìni per Puffi – rigorosamente a forma di fungo -, gli ostelli di Barbie e il teatro delle marionette.

Come ho detto, l’avere un padre falegname ha un certo peso. Ma lui lo ha reso leggero, ne ha mitigato le responsabilità. Gli devo molto, per ogni anno trascorso, per ogni fardello sollevato al posto mio, per tutti i ceppi trasformati in burattini.
Perciò questo Natale lo dedico a lui. E non aggiungo altro.

Sorry, are you a cripple?

In coda alla cassa del supermercato. Una donna discute animatamente con la figlia. Quest’ultima si è infatuata di un amico virtuale, conosciuto su un social network. Non si sono mai incontrati. La madre incalza: “Tu quel ragazzo non lo hai mai visto…Ekeep-calm-and-go-shopping-2782 se poi è zoppo? E se è storpio? Che orrore!”

Poi, voltandosi, mi sorride e mi invita a passarle davanti. Ma rifiuto il diritto di precedenza alla cassa prioritaria: “No, grazie. Preferisco stare in coda. Sa, mi sto innamorando di sua figlia…

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Is there any problem?

Ore 20.00. Alle prese con la cottura della cecìna per la serata Madrina-Figlioccia, ricevo una telefonata da un call center. Tengo a far notare che preparare una buona cecìna è un po’ come eseguire un intervento di microchirurgia: serve polso fermo e sangue freddo. Perché la cecìna l’è subdola! La ricetta potrebbe trarre in inganno: farina di ceci, acqua q.b. olio e sale. Tuttavia, è quel “q.b.” a fare la differenza. Troppo la annacqua e troppo poco la pietrifica. Per non parlare della cottura in forno che va monitorata come si fa con le funzioni vitali di un paziente in sala operatoria. La mia prima cecìna, riecheggia tra le memorie storico-canavesane, è l’apotropaion delle massaie, la temuta alternativa all’andare a letto senza cena dei bambini capricciosi;  si narra che il suo ricordo venga addirittura usato a scopi motivazionali con chi pensa d’esser nato sotto una cattiva stella. Quindi, possiate comprendere la delicata situazione in cui mi trovavo.

Ma torniamo alla chiamata dal call center: “Buonasera sig.ra, chiamo dall’azienda […] per conto di […] avrei piacere di offrirle…”

Lancio uno sguardo alla teglia dentro il forno, e con un cenno della mano invito la mia assistente a fare altrettanto. Ogni minuto che passa può essere fatale.

Hello! Let’s do fast, please. I’m very busy!” Intanto sollevo gli occhi all’orologio appeso al muro.

Dal telefono si ode un lamento, un’emozione malcelata: “Ehm, ehm…hmm…ehm, You…You…Do You…Do You speak Italian?” keep-calm-cuz-there-s-no-problem

No, sorry…” (La finta voce affranta è il mio cavallo di battaglia. Sono subdola come un pelo di gatto infilato tra le maglie di un cardigan. O come la cecìna nel forno.) Silenzio. Poi quello che sembra un sorriso imbarazzato: “Ehm, ok…ehm, ops! Ok…Good night…

Cazzo! Mi hai strappata alla mia creatura per un “Buonanotte”? Infierisco: “Oh! Here it’s morning…

Altro silenzio. Infine una risatina che nulla ha da invidiare all’isteria: “Ah…ehm, ah…” Sopraffatta, non le resta che tagliar corto con un “Bye, Bye!” e poi riagganciare.

La domanda ora è d’uopo: quanti mesi in un centro di Salute Mentale le avrò regalato?