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Un bel tacer

“Un bel tacer non fu mai scritto.” mi sovviene mentre attendo che svanisca il sonno, esausta, al risveglio dopo una giornata che è stata tutto fuorché ordinaria.
Un bel tacer…Ma che cazzo me ne frega di tacere se tutto ciò che voglio è scrivere? Scrivere su ogni centimetro di epidermide, su ogni brandello di carta, sui muri, sui margini delle pagine, sui Testi Sacri, sui delicati incastri delle sinapsi…

È l’unica volontà conservata integra dagli anni dell’infanzia; la sola che non si sia trasformata in un “avrei voluto”.
Voglio scrivere dello scroscio della pioggia giunto a sorpresa nel tardo pomeriggio subito dopo il bagliore del lampo dentro la stanza in penombra. E voglio scrivere della mia natura snaturata, spuria, delle sue pendenze, e della nausea che fa eco al piacere e alla fine si confonde con esso.
“Ho viaggiato poco” confida con una punta di rammarico.
“Io, invece, ho viaggiato moltissimo benché spesso ferma in un luogo.”
Fa un cenno al mio sguardo, all’iride scura che quando fissa un punto di fronte a sé si spoglia della dolcezza e risveglia una bestia assopita dentro.
“C’è una parte di te cupa come il colore degli occhi ed un’altra limpida, rasserenante, così diversa…” suggerisce come a rispondere ad un proprio dissidio interiore ed io gli accordo il piacere di avere l’ultima parola, lascio morire il discorso.
Voglio scrivere del paese in cui sono nata, della sua meravigliosa antichità che, sì, è retriva e bigotta ma pullula di storia e continua a dar voce ai morti.

“Ti faccio un po’ paura?” chiedo in attesa più di una conferma che di un’affermazione, e con una sola ragione nella testa e tra le cosce.
Ma, intanto, un’euforia densa e pulsante distoglie la mia attenzione dalla risposta. “Un cazzo. Non me ne frega un cazzo.”
Allora sorride.
Voglio scrivere del giorno che si è spento con un copioso scroscio di pioggia, del cielo aldilà del vetro. Del cielo che si è fatto cupo come l’iride e ha aizzato la bestia e fomentato la voglia di canticchiare una canzone di quando ero bambina.

La gonna di legno.

Come in un’altra storia – quella di evangelica memoria, forse meno autentica ma, di certo, più famosa – l’avere un padre falegname non è un fatto scevro di conseguenze.

Posso dire, con una punta d’orgoglio, di essere cresciuta abituandomi a forgiare ciò che la Natura aveva dimenticato, e a far di necessità virtù nel costruirmi, come fa il falegname da un pezzo di legno, qualsivoglia strumento in grado di rendermi libera. Così ho modellato la mia disabilità sui miei desideri, trasformato l’handicap in uno stimolo all’indipendenza; ho dato forma al destino.

Certo, in taluni frangenti il legno si è rivelato una presenza ingombrante – che dir si voglia, il falegname ha brillato d’iniziativa ma peccato in stile – come, ad esempio, accadde  quando, trent’anni or sono, chiesi a mio padre un abito con la gonna scozzese in regalo, e lui rispose con concitazione: “Te lo faccio io di legno!” aggiungendo in coda all’enfasi: “Che, almeno, ti tiene più dritta…” Con il senno di poi ad accettarne l’offerta ci avrei guadagnato, tuttavia, lì per lì, misi su un’espressione talmente corrucciata che anche quando il volto mi tornò disteso pareva ci fosse la mappa del Turkmenistan stampata sulla fronte. 

In età scolastica, poi, la produzione lignea raggiunse il suo massimo splendore: rialzi da infilare sotto il banco quando seguivo le lezioni in piedi per allenare la muscolatura, leggii di diversa altezza, custodie per matite, righelli, goniometri e squadre. Sempre in quegli anni, videro la luce i condomìni per Puffi – rigorosamente a forma di fungo -, gli ostelli di Barbie e il teatro delle marionette.

Come ho detto, l’avere un padre falegname ha un certo peso. Ma lui lo ha reso leggero, ne ha mitigato le responsabilità. Gli devo molto, per ogni anno trascorso, per ogni fardello sollevato al posto mio, per tutti i ceppi trasformati in burattini.
Perciò questo Natale lo dedico a lui. E non aggiungo altro.

Se avessi saputo…non lo avrei fatto.

Uno studio ha dimostrato che la realtà virtuale può essere utilizzata per dare l’illusione di tornare indietro nel tempo.

Secondo la rivista Frontiers in Psychology, degno di nota è stato l’impatto emotivo che il viaggio virtuale ha avuto sui partecipanti: viaggiare nel passato sembrava aumentare il senso di colpa che i partecipanti sentivano.                                          (go to the English version)

Di certo, almeno una volta nella vita avete pensato: “Se lo avessi saputo prima…”Ecco una lista delle 5 cose che io avrei cambiato con il senno di poi:

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Una finestra sull’universo

Coricata sull’erba, aspetto di vedere ricomparire il sole. Ora, vedo soltanto un piccolo cerchio luminoso dietro le nuvole. Fa male agli occhi. Tuttavia, anche se la luce è insopportabile non riesco a smettere di guardare.                                                  (go to the English version)

Mi ricorda l’infanzia e le estati trascorse a pianificare il mio futuro. Penso a quegli anni, cercando di immaginare dove sia, ora, quella bambina.

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