L’abisso

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – inutili ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Il cinquanta per cento dei miei amici abita il crepuscolo.

“Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte.”

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri.

“Lo avevo intuito.”

Avvicina le mani, le pone congiunte sulle ginocchia: “Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…”

“E invece s’è fatto incendio sotto la cenere” mi affretto a concludere.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

“Leggevamo insieme, ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.”

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti e ci si fa stretto attorno come placenta.

“Mi fa strano” provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento “che qualcuno ancora avviluppi l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.”

Ascolta senza batter ciglio.

“Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti che tutti gli stupri subiti poi, han preso il sopravvento. Vedi, ora per me una vagina è una fica e tu ti fai rosso in volto quando mi senti parlare così. Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci.”

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

“E poi mi son convinta che il tempo non sia più a mio favore. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze. Ecco, io di affetti sento di averne così pochi che il sapere che a loro il futuro è ancora più nemico mi strappa gli occhi e il cuore.” Bevo, poi proseguo: “L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero sulla mia fica e su Giovanni che un pomeriggio della scorsa estate l’ha cucita, lembo contro lembo, e da allora ogni pensiero su di lei è di carezze e di soffi, e non più di amplessi.”

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Pendenze.

Quando la porta si apre, ad entrare è un vento gelido che giunge dal nord e porta nevischio e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo, da mesi. E non tocco una penna, da mesi. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi dovevo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per sentire un po’ di calore. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.

“Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…” mi confida, esortato ad essere onesto.

“Di questo ti ringrazio. Ora voglio pensare soltanto al mutare delle stagioni.”

Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.

“Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita…” si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. “A volte mi pare di capirti, ma poi mi accorgo che non è così, che ho proiettato su di te sentimenti ed emozioni che sono più miei che tuoi.”

Mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il té verde e subito un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza. Niente di più.

“Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle. Ora non mi interessa più.”

Non ho più scritto perché non ho più toccato corpo. “Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?”

Solleva lo sguardo dalla tazza e mi fissa.

“La vorresti una con la fica infitta e la linfa che dopo aver nutrito le fronde scivola lungo i vasi dentro un sacchetto? La vorresti una che finge di fregarsene ma che in realtà soffre? Ecco, io non sono pronta.”

Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro.  Appena poco più a lato della siepe un pettirosso fruga con il becco tra la neve. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.

Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti essere volgare!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E lui questo lo ignora.