Quando la porta si apre, ad entrare è un vento gelido che giunge dal nord e porta nevischio e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo, da mesi. E non tocco una penna, da mesi. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi dovevo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per sentire un po’ di calore. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.
“Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…” mi confida, esortato ad essere onesto.
“Di questo ti ringrazio. Ora voglio pensare soltanto al mutare delle stagioni.”
Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.
“Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita…” si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. “A volte mi pare di capirti, ma poi mi accorgo che non è così, che ho proiettato su di te sentimenti ed emozioni che sono più miei che tuoi.”
Mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il té verde e subito un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza. Niente di più.
“Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle. Ora non mi interessa più.”
Non ho più scritto perché non ho più toccato corpo. “Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?”
Solleva lo sguardo dalla tazza e mi fissa.
“La vorresti una con la fica infitta e la linfa che dopo aver nutrito le fronde scivola lungo i vasi dentro un sacchetto? La vorresti una che finge di fregarsene ma che in realtà soffre? Ecco, io non sono pronta.”
Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro. Appena poco più a lato della siepe un pettirosso fruga con il becco tra la neve. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.
Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti essere volgare!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E lui questo lo ignora.