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Dopo di noi: l’inganno.

Mentre il mio vicino di casa canta a squarciagola: “Parlami d’amore Mariuccia, prendilo tutto nella boccuccia” – a lui piace esprimersi con parole sue, non ha imparato a memoria nemmeno il numero civico della casa in cui vive – io provo a leggere il testo di quella enorme porcata che è la legge del Dopo di Noi. E via via che le parole scorrono davanti agli occhi, sempre più asfissianti, esiziali, mi ritrovo a constatare il degrado del nostro paese. Penso a quanto sia caduto in basso, affossandosi per la mentalità retriva che ne pervade le politiche sociali. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti i principi costituzionali che sanciscono la libertà di tutti i cittadini? Con questa legge che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, con questa legge criminale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Il trillo del microonde mi ricorda che l’infuso all’arancia e zenzero è pronto. Non ho mai abbastanza pazienza per mettere l’acqua a scaldare nel bollitore, meglio le radiazioni elettromagnetiche ad alta frequenza. “Ma quale tisana!” penso avvicinandomi al tavolo “passami la bottiglia del rum…” Sono le 4.00 del pomeriggio ed io ho bisogno di alleggerirmi i pensieri con l’alcool tanto quanto la bevitrice d’assenzio di Degas. La mia assistente versa due dita di rum nel bicchiere e lo annacqua con uno spruzzo di cola, poi si congeda.

Torno alle mie ruminazioni. Vedo: con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche, il legislatore ci ha rispediti nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

frogs-1347637_1920Al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Una legge ci ha appena riportati nel rinascimento, tacciati dalla buonanima di Gregorio Magno di essere anime maledette e pertanto anime da tenere distanti, segregate in appositi lazzaretti sociali per rimarcare la netta distinzione tra sani e malati. Una legge approvata il 14 giugno 2016 ci ha rimesso al collo la campana degli appestati e ha anteposto ai nostri dati anagrafici lo status di emarginati.

Lui, che mi ascolta come si ascolta la geremiade dietro la grata di un confessionale, gesùreplica: “Guarda che le lussuriose finivano nei manicomi…” Prosegue “A Gesù non piacciono le donne di facili costumi. O no?” Lo scruto perplessa. Allora, mi mostra un’immagine sul telefono: un’iconografia grottesca di un Cristo con una pin-up in grembo. Sorrido.

“Ti senti Gesù?” sto al gioco.

No, ma seguo il suo esempio.” replica prontamente, facendo eco agli insegnamenti dell’oratorio e dell’adolescenza volata tra le tuniche dei gesuiti. “Vuoi sdraiarti sulle mie ginocchia?

Rido. All’istante, la mente evade dalla cella in cui immagino il mio corpo, sguscia attraverso le grate della prigione in cui la si voleva ieri per ragioni divine e in cui la si vuole oggi per ragioni economiche. Mi immagino libera.

E chi non vuole comprendere l’importanza di anteporre il “durante noi” al “dopo di noi”, chi non riesce a intravedere il trucco dietro quest’opera di prestidigitazione che tutela gli interessi delle lobby assicurative e delle lobby del sociale anziché delle persone con disabilità, chi non comprende che quel spedirci “in gruppi appartamento che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare” è un atto di deportazione nudo e crudo e che per deistituzionalizzazione s’intende il poter restare a casa propria e non il venire destinati a case famiglia, ebbene chi non comprende tutto ciò si merita il legislatore e le sue lordure. E anche un dio debosciato.

 

Cogito ergo dubito.

Quando giunge l’ora del crepuscolo e dietro i tetti delle case il cielo avvampa, quel trovarmi alla finestra con il naso a un palmo dal vetro – intenta a soppesare i pensieri – ricorda la mia vita  e i suoi scenari ascosi, sempre camuffati dietro un tramezzo, una quinta, una coltre di nubi. Si distinguono le lunghe ombre della sera sotto la volta che brucia, ma non si riescono a scorgere l’universo e il suo silenzio oltre quel fuoco. Nemmeno ne si intravede uno scorcio finché le fiamme non si spengono. Eppure, dietro la pira incandescente su cui il cielo dà il suo commiato al giorno il buio più nero  è lì da miliardi di anni. In assoluto silenzio.  Un silenzio che non è assenza di suoni bensì impossibilità ad udirli. Lui si porta alla bocca una pesca, la odora rigirandola nella mano, la stringe tra le dita. “Hai sospeso ogni giudizio?” domando e la risposta non tarda a venire: “Sì, a un filo di rafia annodato al soffitto. Ora oscilla come un pendolo.” Ride.teddy-1361396_1920

Discutevamo di quel nostro schierarci come bambini sempre dalla parte dei giusti. Discutevamo di quella personale idea di giustizia che ci rende migliori agli occhi dello specchio. Non un inganno, più una svista. Discutevamo del nostro sentirci figli. “A guardar bene” interviene “ci han concepiti vicino a una cloaca. Eppure, fingiamo di essere frutti anziché escrementi.

Ne perdono l’impertinenza. All’istante. E accosciati sopra il buco del culo del mondo continuiamo a discutere su quale sia il centro dell’Universo.

Mi torna in mente, per assonanza, il primo perdono della mia vita. O meglio, il primo di cui conservi memoria. La prima assoluzione, la remissione dei peccati che blandiva l’ingenuo spirito di bambini. Ad amministrare il perdono era il Bene, un uomo canuto, chino su se stesso, con le mani rattrappite sulle pieghe di una pesante tonaca. Il Bene aveva occhi affaticati, velati da due fila di lunghe e folte ciglia; occhi umidi, pregni di lacrime, occhi di vecchio. Odorava di stoffe lise e usate, di magazzino, di sacrestia. Nell’alito ne avvertivo il timbro acre dell’incenso, ma forse era il lezzo della marcescenza. Quando si avvicinava per impormi il perdono di Dio, gli vedevo l’intreccio delle vene sul dorso delle mani e la peluria più rada sui polsi.  Aveva mani calde, anche in inverno, e mi soffiava in faccia un’assoluzione intrisa di afrore di candeggina, di muffa e, come ho detto, di marciume. Il Bene mi stringeva in un abbraccio asfittico e appoggiava il molle ordito del volto contro la mia guancia, allora respiravo un odore di gesso polverizzato che a confronto l’aria satura di pulviscolo dentro la gipsoteca di nonno pareva limpida. “Io ti perdono” e le parole risuonavano di una grazia imprevista. Ma la sensazione di mangiare gesso spezzava, con un rumore sordo di cibo che si sbriciola, il mio entusiasmo di redenta. Il Bene puzzava come un moribondo dalle carni infette, e quel sentore di lavagna sporca di scarabocchi scavava il petto, rigirava lo stomaco.

Quale paradosso la confessione dei peccati!” penso ad alta voce. Il richiamo primordialetomb-546915_1280 di Pan è sempre stato una voce millenaria incrostata di magma, un ribollire di forze sotterranee, irresistibile. Lui apre la finestra e si affaccia per gettare oltre la siepe il nocciolo della pesca. Poi socchiude le imposte. Nella stanza vortica un profumo di gelsomino frammisto all’afrore di letame che giunge dalle cascine dall’altro lato del paese. Si avvicina con fare mesto e appoggia le mani sulla mia testa, sopra i capelli che si stanno infoltendo di filacci bianchi.

La penitenza quale sacramento, come direbbe il marchese De Sade” ride “Invece dell’ostia, masticherai il seme!” Sicché, lungi dal credere che saremmo diventati una sola carne agli occhi di Dio, ho allungato una mano verso di lui e riaperto gli occhi sulla mia vita: un cielo infuocato che disperde nel vento le ceneri dei morti. E oltre, l’Universo.