Non parlarmi, sto morendo!

Quando mi ammalo il mio equilibrio mentale resiste, al massimo, due giorni. Dopodiché divento quanto di peggio si possa attribuire alla natura umana: irascibile, insofferente, nichilista, lagnosa, insopportabile… ma, soprattutto, finisco per rischiare la disidratazione per via della dovizia di lacrime. Indi per cui, oltre ad avere, naturalmente, gli occhi arrossati e gonfi come quelli di una rana dalmatina che ha appena fumato oppio, prosciugo letteralmente le risorse idriche del mio corpo. L’immagine che meglio rappresenta il fenomeno è – contro ogni aspettativa di sex appeal – quella della prugna secca,  raggrinzita e inaridita. Dal terzo giorno di malattia, la fortuna delle multinazionali dei prodotti in carta dipende in buona percentuale dai miei disturbi dell’umore. In quei giorni, infatti, il consumo massiccio di fazzoletti, veline, carta assorbente ne fa lievitare le quotazioni in Borsa. Ebbene, che dir si voglia, il rischio di un’inondazione, in virtù di tali fatti, è tutt’altro che fantascientifico. Tant’è che stamani, al telefono con un’amica – la quale, in vista di una visita pomeridiana, chiedeva se avesse dovuto portare il mocio – mi è tornato in mente un vecchio spot televisivo che nell’iperbole pubblicitaria faceva domandare a un gondoliere: “Chi gà sugà el canal?” Allora, in virtù della maggiore efficacia, ho prontamente replicato: “Meglio un deumidificatore!”

Insomma, negli ultimi quindici giorni mi sono ammalata due volte e, a prescindere dall’insana idea che un germe si sia innamorato di me, ho dovuto assumere una tale quantità di antibiotico che tra le cellule del mio corpo credo si stia consumando un olocausto. Sono una portatrice sana – ehm, si fa per dire – di morte.

Odio ammalarmi! Odio dover fare i conti con l’aspetto più fastidioso della SMA, l’esposizione a un rischio di complicazioni esponenzialmente maggiore a quello di molte altre persone. Odio – e quando dico odio intendo il sentimento nudo e crudo nella sua forma più caustica ed esiziale – dover restare chiusa in casa per evitare possibili aggravamenti, rinunciare ai sabato sera mondani, agli appuntamenti programmati da mesi. (Nel caso non ve ne foste accorti, sto declinando verso il vittimismo. La sola attenuante è la claritromicina).Orsola

Allora, mentre mi mangio il fegato – il che mi fa pure un po’ schifo – e mi compatisco, passo il tempo scrivendo e fantasticando di ricevere qualche notizia in grado di alleviare il peso della reclusione, di offrire al livido perire un’agognata liberazione. L’iconografia dei miei malanni di stagione mi rappresenta esangue, con il volto emaciato, prossima a spirare. In attesa della luce. Sicché attendo come nel Martirio di Sant’Orsola del Caravaggio gli astanti attendono la morte della santa.  E le notizie per arrivare arrivano:

una contravvenzione per aver sostato in un parcheggio con divieto di sosta 0-24

una lite tra due condomini per la pulizia delle scale, conclusasi con la decisione di fare pagare una quota più alta a me che abito a piano terreno e – per ovvi motivi – le scale non le uso mai.

il bollettino parrocchiale che mi invita a ricordare le date per le confessioni.

Come ho detto, le notizie per arrivare arrivano. Solo che non sono proprio come me le aspettavo…

La parola ha un corpo di donna…

ma spero non abbia il mio!

L’invito a parlare del mio romanzo, Nuda Pelle, in occasione della Fiera del Libro di Porto Viro, mi aveva gettata nel dubbio, sperduta come un’anguilla polesana tra le secche: accettare l’invito oppure no? Perché io so, con imbarazzante consapevolezza, di essere programmata per lo spegnimento dopo un certo periodo di inattività, proprio come un elettrodomestico in modalità “Risparmio Energetico”. E, di fatto, avendo scritto il libro diversi anni fa, alla promozione ne avrei preferito il suicidio assistito. Tuttavia, a dipanare i dubbi, conducendomi a una scelta, ci ha pensato lo spirito da negoziatore  – lo stesso che in tenera età mi portò a contrattare una lunga lista di benefici in cambio del mio silenzio circa le confidenze giunte alle orecchie durante i pomeriggi trascorsi da nonna, la quale gestiva un distributore di carburante, ed era solita farmi fare merenda seduta tra la pompa della benzina e quella della miscela. Sicché ho accettato, in primis per l’amicizia e la stima che mi lega a Marialaura Tessarin, Assessore alla C
Cultura del Comune, e, infine, perché ero riuscita a farle promettere che avrei potuto accennare al blog dopo la presentazione del libro, giungendo finalmente a parlare di Vita IndipendenteNuda-pelle-di-Tania-Bocchino_su_vertical_dyn

Così siamo partiti, i miei due assistenti ed io, in una fredda e piovosa mattina di novembre. La mia auto ha il vantaggio di contenere, in uno spazio limitato, un’ampia fetta di Universo, con la Via Lattea più qualche altra galassia superflua che spingiamo a forza dentro l’abitacolo, giusto per scongiurare di restar senza provviste (casomai giungessero pestilenze, carestie e altre calamita naturali). È risaputo, infatti, che durante il viaggio io consumo più zuccheri di quelli consumati da un ciclista in gara per la maglia rosa durante tutte le tappe del Giro d’Italia. Quindi, principio inalienabile è la presenza di cioccolato, biscotti con confetture varie, patatine, cracker al sesamo, al mais o alle olive purché senza sale in superficie, focaccine soffici con o senza farcitura, e infine bevande ipercaloriche che in caso di rimorso – il che avviene una volta ogni due anni bisestili – sostituisco con la versione light.

Comunque sia, intruppati tra le vivande, siamo giunti a destinazione. Parcheggiata l’auto di fronte alla locanda nella quale il Comune aveva riservato una camera per me e per i miei assistenti, ci siamo diretti verso l’ingresso. E lì, davanti a un’ampia vetrata, abbiamo trovato ad attenderci…l’uscio serrato! La locanda era chiusa, ma un foglio affisso alla porta invitava a comporre un numero di telefono per informazioni. Dopo una veloce ispezione sul retro dell’edificio, casomai vi fosse una seconda entrata, tentando financo di scassinare un paio di porte e di suonare un interruttore di corrente credendo fosse un campanello, abbiamo dovuto ammettere che la locanda era, senza ombra di dubbio, chiusa. Sicché ho preso in mano il telefono e chiamato il numero indicato: <<Buonasera, dovremmo pernottare, siamo fuori dalla locanda… >> E una voce maschile dal timbro caldo e gentile ha risposto senza esitazioni: <<Arrivo in cinque minuti! GRASSIE!>>.

Se mai ve ne fossero stati, non vi erano più dubbi che fossimo in Veneto!

D’altra parte, avevo già annusato una pallida certezza nel momento in cui, nei pressi di Verona, la mia assistente – che in più occasioni si era definita una che le inflessioni le assorbe come una spugna – aveva iniziato a chiamarmi “vecia”...E lo aveva fatto con la stessa nonchalance di quando, usciti dal traforo del Frejus, il suolo francese le aveva messo addosso una frizzante voluttà francofona, e da quel momento fino al ritorno in Italia era stato tutto un “Oui”, “Merci beaucoup”, “Excuse moi”.  poster-a3_08-ott-723x1024

Ma dicevo di Porto Viro e della presentazione del libro. L’appuntamento era dentro la sala conferenze della Biblioteca comunale, non molto distante dalla locanda, ma il navigatore, dopo la prima rotonda all’imbocco del paese, si era impuntato a dirci che ci eravamo smarriti nel nulla: metà mappa urbana per lui non esisteva. Quel bieco occhio satellitare ci dava per dispersi! Sicché ci siamo arrangiati, facendo della mia proverbiale faccia da culo una bussola infallibile. E siccome codesta faccia, che ci ha indicato la strada evitandoci di circumnavigare il globo, ha finito con l’infondermi tanta sicurezza, me la sono portata appresso per tutta la serata.

Tuttavia, il pubblico mi ha fatta sentire a casa, accogliendomi in modo del tutto inaspettato. Ho avuto la sensazione di essere in famiglia, benvoluta. La serata è proseguita finché alla domanda: <<Di che colore immagini il tuo futuro?>> a rispondere è stato lo stomaco con una confessione corale: <<Rosso pizza!>>. Allora, tra coloro che erano presenti in sala, è serpeggiato un mormorio, fino a che qualcuno, in un empito di compassione, ha esclamato: <<Marialaura, portala a cena!>>. A quanto pare, la fame mi precede…