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Il piacere che non piace.

Il raggiungimento dell’indipendenza, fisica ed economica, ha da sempre vellicato i miei pensieri di sognatrice. Fin da quando, bambina, risalivo sulle spalle di mio padre la strada che dalla casa cantoniera conduceva alla piazza del paese, e seppur in silenzio, nutrivo il desiderio di appoggiare i piedi sull’asfalto per camminare senza dipendere più dalle gambe altrui.

L’indipendenza che intravedevo come la meta da raggiungere, passo dopo passo, era più uno stato mentale, una vera e propria rivendicazione dell’autonomia di pensiero.

Ebbene, se il pensiero non può mai dirsi completamente libero dai condizionamenti, le esperienze – il vissuto maturato sulla nostra pelle, intimo e onestissimo – possono aiutarlo a sentirsi indipendente. Ad affrancarsi dalle convinzioni della massa.

Ho 36 anni, una grave disabilità motoria e faccio sesso da quando avevo 16 anni. Vent’anni di prime volte, di posizioni inventate, di rose-143937_1280immaginazione; vent’anni di amore tenuto in serbo come un’offerta intima, lontano dagli sguardi altrui, vent’anni di scopate alla mercé del vento, vent’anni fecondi come il ventre che non ha mai portato a termine una gravidanza. Vent’anni di umiliazioni, anche. Di pregiudizi. Forse più ora, che all’epoca. Ora che il concetto di assistenza sessuale è giunto a risvegliare, oltre alle coscienze, la morbosità di molti. Perché l’idea di assistere sessualmente una persona fa gola ai più, è un invito a concretizzare l’idea che fottersi un disabile significhi essere all’avanguardia.  Così quello che doveva far le veci di un urlo liberatorio in faccia al bigottismo, ha finito per dar voce al pregiudizio. Un pregiudizio in odore di santità, s’intende. Ecco, allora, un’orda di segaioli che giunge a offrirmi le pudènda con carità quasi cristiana, giovani e meno giovani che si dichiarano di mentalità aperta perché chiavare una storpia è roba d’avanguardisti, dongiovanni improvvisati certi che non gli si dica di no giacché è imperativo che l’handicappata riceva cazzi senza far questioni, alla stregua di un dono. Ma se la storpia è stronza? O se, semplicemente, non è la bambola che molti avrebbero voluto fosse?

Sovente, negli incontri occasionali, ho avuto la netta percezione di essere io l’assistente sessuale. Mi si conceda questa provocazione. Quando si tratta di erotismo, i ruoli son sempre mutevoli. Colei che porta lo stigma dell’assistita può diventare, a tutti gli effetti, l’assistente. Di fronte ad ogni erezione ho sempre saputo di essere io a dar piacere, a soddisfare un bisogno altrui. Certo, ho soddisfatto anche la mia esigenza di essere desiderata, appetibile, come è giusto sia in natura. Dov’è, allora, il confine tra l’assistere e l’essere assistita?

Nuda Pelle

           Nella contemplazione dell’immobilità, germogliava il seme creativo. Dalle linee imperiture che distinguono le forme e danno alle figure un nome, segno dopo segno affiorava l’idea del movimento. Si faceva strada così il tacito sentore che il dipinto non fosse che il tramite; anima che tramuta le forme intellegibili in materia, l’unicum dell’essere e del pensiero. Erano le tinte scure a impreziosire la stanza, il nero che nella pittura non è mai nero.

Il peso delle ginocchia spinge a terra, c’è un accasciarsi sulle proprie gambe che preme. È la condizione umana di vivere innumerevoli viaggi dentro una stanza. Passo dopo passo.

Così la condizione favorita per assaporarne l’intimità era la penombra. Quando il crepuscolo silenziava le luci erubescenti del tramonto e lunghe zone d’oscurità si ramificavano sul pavimento e sui muri. Dal soffitto affioravano sentori di buio; diagonali di nero occludevano gli angoli, poi si facevano avanti come non temessero più gli spazi aperti. L’assedio si faceva più stretto, non restavano che sporadiche vie di fuga sotto le porte, attraverso le serrature, dalle finestre. Il contorno cinabro delle Alpi si spegneva. Il cielo per poco sarebbe stato ancora sfondo, poi si sarebbe uniformato all’orizzonte.

Lorenzo si era avvicinato a lei e poteva sentirne il profumo vanigliato del balsamo per capelli. Lei teneva gli occhi fissi sul pavimento, in segno di sottomissione. Piaceva ad entrambi quel gioco mascherato da convenzione: Irina gli dava tutta se stessa, metteva nelle sue mani la propria volontà. Voleva essere un dipinto, tracce di pittura, un segno sulla tela privo di coscienza.

In casa l’inconfondibile odore della sua presenza. Veniva a farle visita ogni giorno, eccetto i sabati e le domeniche che riservava alla moglie.

Voleva essere dipinta, capovolta, dissanguata, purgata dell’anima, resa bambola. Il sentirsi sdoppiata tra realtà e immaginazione la faceva sentire come una bambina con una bambola tra le mani, mentre gioca a denudarla, a farle compiere i primi passi solitari, a interagire con un mondo per giganti, dentro un corpo da donna e con lo spirito di un’infante; mentre prova per la prima volta a immaginarsi adulta, a baciare l’aria e poi quella bocca di plastica, poco importa se maschio o femmina, in fondo è pur sempre un bacio, pur sempre una bocca, pur sempre un gioco.

Le sensazioni enfatizzate dall’emotività rimandavano sentore di arti avvinghiati gli uni agli altri, tepore di sangue, umidi secreti vaginali e saliva, odore di pelle, di capelli.Il corpo tornava ad essere nulla, un pensiero in potenza, forse, avviluppato al codice genetico di tenaci e inconsapevoli vettori di vita.

«Sii anche tu bambola. Giochiamo con l’età che sconvolge i piani al pensiero lineare dell’esistenza, che segna e incide il concetto amorfo di vita, che si fa beffe dell’identità peritura e fa di noi persone, semplici maschere. Mutevoli, inconsistenti, vane» aveva sussurrato all’orecchio di lui e subito ne aveva avvertito l’eccitazione. Egli l’aveva Nuda-pelle-di-Tania-Bocchino_su_vertical_dynpresa in braccio e stretta con forza prima di condurla sul letto, sotto La Morfinomane di Vittorio Corcos. Forse era la stanchezza che appesantiva gli arti a fargli preferire il materasso alla durezza del fratino, o forse era dolcezza, una dolcezza imprevista che gli suscitava la sola vista di lei.

Lei stava in silenzio, un silenzio interrotto da brevi gemiti. Sentirsi intrappolata con tale veemenza sotto il corpo di lui le dava piacere. La eccitava l’idea che il corpo potesse divenire un’opera d’arte. E vivere anche dopo la morte. Alla mercé di spettatori sgomenti. «Hai mai pensato alla serenità?» egli aveva domandato. «Sì, innumerevoli volte».

estratto da Nuda Pelle