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Marchette condominiali

Rincasi in un pomeriggio assolato e tiepido di fine ottobre; il riverbero del sole sul parabrezza rimanda il pensiero a taluni chiarori estivi abbacinanti che fan sentire rassicurati e, a dirla tutta, quasi letargici. Sulla strada davanti casa incontri l’amministratore del piccolo condominio in cui vivi. Lo saluti, lui ricambia il saluto in toni frizzanti saettando dentro l’auto parcheggiata accanto alla tua.

“Ti ho messo in buca il bilancio consuntivo delle spese dell’anno scorso!” annuncia, sorridendo, con fare allegro di ape che ha appena impollinato un campo di papaveri. E quel sorriso è talmente pregno di significati che nell’estrapolarne uno a caso chiunque saprebbe di avere una possibilità di errore che si aggira intorno al 99%, ma tu NO! Tu sei sicura senza alcun beneficio di alcun cazzo di dubbio che quel sorriso significhi “Tranquilla, i tuoi consumi sono i più bassi del quartiere” perché, in fondo, vivi sola, con un vasetto di yogurt ci fai merenda due giorni, riscaldi l’acqua per il tè nel microonde, accendi la lavatrice dopo il tramonto scegliendo il lavaggio rapido, e tutti i tuoi ospiti sanno che se dimenticano aperto il rubinetto dell’acqua subiranno pene corporali che spaziano dall’uso del cilicio alla flagellazione.

Così ti avvicini alla cassetta delle lettere con un’aria di beatitudine stampata sulla faccia, mentre un raggio di sole ti disegna un’aureola sui capelli. Recuperi il dossier, lo sfogli – lasciando riecheggiare tra le sinapsi un canto corale di voci bianche dal timbro cristallino – e quando leggi l’ammontare delle spese ti esce dalla laringe un accordo come di canto archetipico, una sorta di ode alla fertilità sintetizzata in un “Cazzo!” in odore di preghiera.  La tua morigeratezza è stampata a tre zeri, nero su bianco. Passi la prima mezz’ora cercando di convincerti sia un errore di stampa, poi un’altra mezz’ora tentando di convincerti sia un errore di calcolo, e infine trascorri un paio d’ore a passare in rassegna fantasiose alternative di suicidio quasi tutte svalutate da remunerativi propositi di meretricio. E sì, anche questo è Vita Indipendente! Tutto questo: dall’avere un debito elevato al cubo per aver usato il riscaldamento come un surrogato del sole tropicale, al pianificare qualche marchetta per estinguere le spese condominiali. Invero, anche questo è garanzia di pari opportunità! 

Tra il dire e il fare…ci sono anni di psicanalisi.

Capita che sopraggiunga la sera e ti colga in flagranza di reato con le mani nella crema di nocciole e un piede – nonché un paio di ruote – sull’orlo del precipizio. E talvolta succede che a scuoterti dalla mestizia di una giornata andata storta ci pensi la Provvidenza. Non quella di divina memoria che, nel migliore dei casi, è stata smantellata come uno di quegli sportelli sociali chiusi per mancanza di fondi. No, non quella. La Provvidenza di cui parlo è quella che ha consegnato ad Arthur Bloch il compendio della legge di Murphy, nello stesso modo in cui quell’altra – quella abolita – ha messo le tavole con i Comandamenti nelle mani di Mosè. Sicché, mentre ti compatisci sopra il barattolo mezzo vuoto e gli occhi gonfi di pianto ti fanno rimpiangere l’epoca storica in cui  potevi vendere le lacrime ad un’orda di devoti in cerca di reliquie, e oggi,  invece, tuttalpiù puoi venderti su internet un paio di mutande intrise di umori, ecco che avviene il miracolo. Infatti, come un segno del destino, ricevi un messaggio da un perfetto sconosciuto che con afflato poetico e toni aulici ti scrive:”Io una trombatina con te la farei volentieri!“.

Allora, in quel preciso istante, mentre sollevi lo sguardo dalle tue ginocchia e ti accorgi che è calata la notte e il cielo si è fatto nero come un catafalco rovesciato sopra le case, ti sale dalle interiora la proverbiale carogna che, come sempre, si presenta come un rigurgito di parole. Allora parli, armata fino ai denti e pronta ad uccidere, solo che parli da sola perché lo sconosciuto non ti ha lasciato un numero di telefono, e se anche te l’avesse lasciato ora sarebbe in bagno a farsi una sega.

Di solito la sincerità la apprezzi molto, oltretutto la sua ti ha permesso di capire senza troppe seghe mentali che quello che vuole conquistare non è il tuo cuore, così non devi prenderti la briga di tirarlo a lucido e confezionarlo nella speranza che il dono sia gradito. Tuttavia le parole premono da sotto il costato come una rivelazione che va enunciata e udita:”Devo ammettere” qui, se non ricordo male, ho fatto una pausa per prendere fiato:”Devo ammettere che tra tutti i modi verbali hai scelto quello corretto, poiché non potresti mai ambire ad un indicativo futuro, né tantomeno presente, nemmeno se – e qui il congiuntivo è d’obbligo – fossi così scaltro da dirmi che la tua era soltanto una provocazione e che il tuo reale desiderio è passare una notte intera a tenermi la mano, disteso al mio fianco. Cazzo! Io volevo poesia e tu volevi darmi…ecco…per l’appunto, quello. Ma almeno potevi edulcorarlo, farlo sembrare meno cazzo e un po’ più amore, millantare come fanno tutti, cazzo! (E ridaje).”

Respiri e intanto ti assale il dubbio che lo sconosciuto non sia realmente sconosciuto, e se avesse un nome e questo fosse MG allora andrebbe bene anche il cazzo senza la corona d’alloro intorno. Ma taci, ché intanto la mestizia si è dileguata e pensi tra te e te che, in fondo, poteva andarti peggio.

Fantasie bondage.

Torino, via Po. Dentro un famoso Caffè. Inizio a flirtare con il cameriere che intanto ci prova con tutte e fa del mio un passatempo senza dolo; quella che si consuma dentro la pasticceria travestita da pub è, quindi, pura troiaggine con l’immunità.

unless-you-puke-faint-or-diet-keep-goingSenza girarci attorno – ché avevo appena affrontato un avvolgimento da pole dance intorno alla gamba del tavolo per infilarmici sotto, perciò nell’inciucio potevo pure essere stringata – dopo la crostata alla crema gianduia, finisco con il ritrovarmi in bocca una nuda e cruda pratica bondage. E non si creda che siam giunti a cotanta intimità in pubblica piazza! Il mio, ça va sans dire, è un mero riferimento metaforico, signori.

Insomma, tra un’ordinazione e un’allusione lui azzarda:”Adoro il bondage: mi piace sia essere legato che legare!

Perfetto, con ne non hai nemmeno bisogno di una corda: non mi muovo, come mi metti resto.

Credo di averlo ucciso.

L’emivita della libertà.

Le serate migliori sono quelle che trascorro nella stanza con l’affresco del rito dionisiaco, alla luce di una candela. E in cui scrivo, accanto a una tazza di tè, nel silenzio della casa.

Quanto durerà questo stato di benessere? Ho sempre voluto vivere così, poter decidere delle mie notti.

L’indipendenza, qui e non altrove, è un contratto a tempo determinato. Qui si è precari verso ogni respiro; verso ogni scelta che contempli un domani. Ogni giorno è una rivendicazione d’indipendenza, un profluvio di parole contro l’oppressione di un incubo.

Quanto può durare la libertà?

L’indipendenza sa di cioccolato.

Vi siete mai chiesti che sapore abbia l’indipendenza?

Sa di cacao mescolato al latte e servito fumante dentro una tazza di maiolica bianca; sa di crema Chantilly e di panna montata accomodate dentro un bignè ricoperto di zucchero a velo. E forse sa anche di crema al cioccolato e di fragole affondate in due soffici strati di pan di Spagna. Forse sa di frutti rossi e di zenzero messi in infusione dentro una tazza di acqua rovente. Io so per certo – senza presunzione – che l’indipendenza ha il sapore della cioccolata calda e dei bignè. E non ha alcuna importanza – il sapore resta lo stesso – se non la si gusta con il cucchiaino, ma con una cannuccia, sorseggiandola anziché farla scivolare sulla lingua, sciogliendola sul palato.

Capita che tu scopra quale ne sia il sapore una domenica pomeriggio, durante una passeggiata in città, dopo aver attraversato la via porticata che per un giorno è la via dei Portici di Carta. Tuttavia, mentre cammini tra le bancarelle piene di libri, facendoti largo tra la folla che odora di vaniglia, di bergamotto, di cuoio, di menta, di lana, di tessuti acrilici e di plastica, non avverti la benché minima intuizione di ciò che stai per scoprire. Inizi ad intuirlo soltanto quando svolti nel corso di regale memoria, di fronte alla stazione ferroviaria, e lo percorri avida di profumi di pasticceria fino ad averne gli occhi pieni di soffici richiami. E lì, specchiandoti sulla vetrina del famoso Caffè, dai forma all’intuizione. Soltanto una volta entrata e aver preso posto a uno dei tavolini della sala decorata secondo lo stile dell’Art Deco, però, ne scopri – finalmente – il sapore.

Sei uscita di casa una domenica pomeriggio insieme alla tua assistente che, guidando la tua auto, ti ha accompagnata in città. È un pomeriggio d’autunno con il cielo coperto e l’odore delle caldarroste nell’aria. Hai scelto di fare una passeggiata, non hai avuto dubbi sulla destinazione. Hai scelto perché potevi scegliere. L’indipendenza ha il sapore del cacao mescolato al latte e servito fumante, delle paste con la crema Chantilly e la panna montata, spolverate di zucchero a velo. E credo, con una certa convinzione, che la libertà abbia lo stesso sapore.

Platti
Turin. At the pastry shop, Platti.

IL CARNEVALE DI GERTI

Il prossimo viaggio è deciso, ma passerà un po’ di tempo prima che prepari la valigia. Il tempo per dare il benvenuto all’autunno, in questo taglio di terra che abito da poco più di un anno.  Oggi constatavo la rara bellezza di queste giornate cupe.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro fa spogli i suoni e ne deriva i sorridenti ed acri fumi che ti compongono il domani:ora chiedi il paese dove gli onagri mordano quadri di zucchero alle tue mani e i tozzi alberi spuntino germogli miracolosi al becco dei pavoni.

E chi se ne frega se le ruote s’inzaccherano negli acquitrini e disegnano figure astratte sul pavimento, se, per uscire di fretta, ho avvolto le spalle con un cencio e più nessuna apparenza ha potuto mascherare lo spirito randagio; chi se ne frega se rabbuia tra i vicoli e dentro le case, e se lui tace con lei – ed io, complice – non le dà il peso della verità, non mente, semplicemente non dice che aspetta la pioggia per venire a farmi visita in queste stanze buie.

Ricordo una poesia di Montale.

IL CARNEVALE DI GERTI

“Se la ruota s’impiglia nel groviglio
delle stelle filanti ed il cavallo
s’impenna tra la calca, se ti nevica
sui capelli e le mani un lungo brivido
d’iridi trascorrenti o alzano i bimbi
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio ed i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume,
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d’aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia – hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l’anno tranquillo senza spari.

                                                          Ed ora vuoi sostare dove un filtro
                                                          fa spogli i suoni
                                                          e ne deriva i sorridenti ed acri
                                                          fumi che ti compongono il domani:
                                                          ora chiedi il paese dove gli onagri
                                                         mordano quadri di zucchero alle tue mani
                                                         e i tozzi alberi spuntino germogli
                                                         miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh il tuo Carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l’urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l’ora
che il Gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È Carnevale
o il Dicembre s’indugia ancora? Penso
che se tu muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori…)

                                                     E il Natale verrà e il giorno dell’Anno
                                                     che sfolla le caserme e ti riporta
                                                     gli amici spersi, e questo Carnevale
                                                     pur esso tornerà che ora ci sfugge
                                                     tra i muri che si fendono già. Chiedi
                                                     tu di fermare il tempo sul paese
                                                    che attorno si dilata? Le grandi ali
                                                    screziate ti sfiorano, le logge
                                                    sospingono all’aperto esili bambole
                                                    bionde, vive, le pale dei mulini
                                                    rotano fisse sulle pozze garrule.
                                                    Chiedi di trattenere le campane
                                                    d’argento sopra il borgo e il suono rauco
                                                    delle colombe? Chiedi tu i mattini
                                                    trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile,
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato
pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all’esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s’aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco,
quella che additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.

(Eugenio Montale)

Ho camminato sui tetti…

Su quanti ascensori sono salita, in 36 anni, non ricordo. In genere, però, ricordo i pianerottoli, gli androni, le terrazze a cui mi hanno condotta. E a parte il vecchio ascensore del condominio in cui ho vissuto gli anni dell’adolescenza, una sorta di scatola con le porte a battenti e le pareti color mandarino che parevano in preda all’itterizia, uno di quelli che ricorderò è l’ascensore che conduce alla terrazza del Museo della Montagna.     (go to the English version)

Il tragitto è stato breve: un paio di piani dentro una piattaforma con le pareti di vetro opalino. Un piccolo balzo come in assenza di gravità. Non ho avuto nemmeno il tempo di ascoltare la voce claustrofobica che affanna sulla soglia di una cabina stretta tra quattro mura.  Uscita dall’ascensore, sul belvedere, l’impatto con il sole di settembre sorprendentemente caldo. Poi la luce, calda e accecante delle ore pomeridiane. Infine la città, estesa come un mosaico sulla superficie pianeggiante al di là del Po; oltre i tetti con le tegole rosse sui quali ci affacciavamo.  E dietro di noi, la collina, i sontuosi edifici adombrati dal fogliame, la strada che tante volte ho percorso, e che sale verso le stelle…

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TERMINI DI PARAGONE.

Per me vivere da sola non significa, alla lettera, essere sola: da sola non riuscirei a versarmi nemmeno l’acqua nel bicchiere!

La mia giornata è organizzata in modo tale da far convivere la mia necessità di aiuto e il bisogno di privacy. In casa mia si alternano due assistenti, ciascuna delle quali è addestrata ad essere discreta – in parole povere, se ho un rendez-vous, loro garantiscono riservatezza ed intimità – e sa ricavarsi i propri spazi in casa senza essere una presenza invadente – non si piazzano sul mio divano per ore a guardare la tv, con i piedi sul tavolo e il telecomando in mano, tanto per capirci.

Sabato, ad esempio, volevo trascorrere la giornata insieme all’amica Margherita, una raffinata appassionata d’arte, amante della bellezza e delle passeggiate notturne tra i richiami liberty dell’architettura torinese. Non avendo la possibilità di far allestire un’auto per la guida con joystick, non ho mai preso la licenza di guida (quindi nessun segno della croce o rituale apotropaico, signori!). Sicché la mia assistente mi ha accompagnata in città, con la mia macchina, mentre io – ingabbiata con la mia seggiola a ruote tra i sedili posteriori come un cavallo dentro il box – svolgevo a perfezione il ruolo di navigatore. Ruolo che peraltro mi riesce bene, tranne quando finisco con lo smarrirmi in un paesino di mille anime o imbocco la tangenziale in direzione sud dovendo, invece,  andare verso nord. In città, però, sono una Via Michelin personificata, l’incarnazione di Google Maps con i capelli lunghi e un paio di jeans attillati! Non c’è piazza o via che non mi ricordi qualcosa: un incontro inatteso, una focaccia talmente buona da leccare pure l’involucro di carta, una lavanderia automatica che un giorno, carica di indumenti come una venditrice ambulante, ho trovato chiusa…Insomma, tutte queste reminescenze hanno trovato collocazione dentro la mia testa come le indicazioni su una cartina geografica.  Così non sbaglio un vicolo, la città non ha segreti!

Volti a confronto
Volti a confronto

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Se tabacco e Venere riducon in cenere…

Seduta sotto il gazebo, nel giardino di casa, in mezzo alle begonie e alla verbena, mi ritrovo a soppesare quest’estate che sta volgendo al termine. La meta del prossimo viaggio è ormai decisa, non resta che trovare un’offerta vantaggiosa per le mie tasche da squattrinata.i-havent-been-everywhere-but-its-on-my-list-2 Certo, se avessi maggiori possibilità economiche vorrei spingermi oltre i confini che la malattia prima e le difficoltà finanziarie poi hanno sempre tenuto a distanza, come un orizzonte irraggiungibile. Tuttavia, l’indole irrequieta che mi distingue rende, ai miei occhi, più desiderabili i tragitti impervi e gli ostacoli insormontabili. Gli orizzonti che rapidamente diventano approdi non suscitano in me lo stesso fascino di un eremo in cima ad una ripida scalinata o di una frontiera chiusa da un categorico divieto d’accesso.  Ci sono luoghi che la mia condizione fa apparire preclusi, e per questo motivo si trasformano in mete allettanti. So che prima o poi, in qualche modo, li raggiungerò.

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Se avessi saputo…non lo avrei fatto.

Uno studio ha dimostrato che la realtà virtuale può essere utilizzata per dare l’illusione di tornare indietro nel tempo.

Secondo la rivista Frontiers in Psychology, degno di nota è stato l’impatto emotivo che il viaggio virtuale ha avuto sui partecipanti: viaggiare nel passato sembrava aumentare il senso di colpa che i partecipanti sentivano.                                          (go to the English version)

Di certo, almeno una volta nella vita avete pensato: “Se lo avessi saputo prima…”Ecco una lista delle 5 cose che io avrei cambiato con il senno di poi:

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