Su quanti ascensori sono salita, in 36 anni, non ricordo. In genere, però, ricordo i pianerottoli, gli androni, le terrazze a cui mi hanno condotta. E a parte il vecchio ascensore del condominio in cui ho vissuto gli anni dell’adolescenza, una sorta di scatola con le porte a battenti e le pareti color mandarino che parevano in preda all’itterizia, uno di quelli che ricorderò è l’ascensore che conduce alla terrazza del Museo della Montagna.     (go to the English version)

Il tragitto è stato breve: un paio di piani dentro una piattaforma con le pareti di vetro opalino. Un piccolo balzo come in assenza di gravità. Non ho avuto nemmeno il tempo di ascoltare la voce claustrofobica che affanna sulla soglia di una cabina stretta tra quattro mura.  Uscita dall’ascensore, sul belvedere, l’impatto con il sole di settembre sorprendentemente caldo. Poi la luce, calda e accecante delle ore pomeridiane. Infine la città, estesa come un mosaico sulla superficie pianeggiante al di là del Po; oltre i tetti con le tegole rosse sui quali ci affacciavamo.  E dietro di noi, la collina, i sontuosi edifici adombrati dal fogliame, la strada che tante volte ho percorso, e che sale verso le stelle…

Ho camminato sopra i tetti, ho scivolato tra lo spiovente e la grondaia, ho saltato il precipizio delle vie, appoggiato i piedi su tegole di laterizi, sul cemento, sulla pietra, e sono avanzata, passo dopo passo, sul cornicione, sebbene nella realtà io abbia la lentezza di un bradipo ottuagenario e riesca a muovermi meglio con il pensiero che con il corpo…