L’addio.

Alhamdulillah, sia lode a Dio per averti messa sul mio cammino. “Sia lode a Dio” verrebbe da dire se non fossi un’agnostica che ha sempre procrastinato ogni ammissione di fede perché convinta che la nostra vita sia il tempo della ricerca e non del monotono celebrare una verità raggiunta.

Sono in piedi, sulla terra.
Il mio corpo: uno stelo d’erba
che, per esistere, succhia
il sole, il vento, l’acqua. (Forough Farrokhzad)

Hanane ed io ci siamo congedate in mezzo agli effluvi degli incensi, quelli dolciastri del nag champa e quelli acri della carta d’Eritrea. All’imbrunire, tra la masnada degli ambulanti e i giochi chiassosi dei bambini. Le sue dimissioni in vista del matrimonio le aveva rassegnate ufficiosamente già da qualche mese. Tuttavia, è rimasta al mio fianco fintanto che non ho trovato una degna sostituta.

Torino pullula di viandanti. “Due addii in un mese sono troppi per me”. Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: “Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana.”
“Ma il mio non è un addio!” assicura, ed è più un voler porre l’accento sul fatto che sì, ha visto l’operato clandestino e il viavai di cani in fregola, conosce il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti. Più su questi ultimi, ovviamente. Lei ha visto il cuore e non intende alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.
Alhamdulillah” verrebbe da dire.

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