Non parlarmi, sto morendo!

Quando mi ammalo il mio equilibrio mentale resiste, al massimo, due giorni. Dopodiché divento quanto di peggio si possa attribuire alla natura umana: irascibile, insofferente, nichilista, lagnosa, insopportabile… ma, soprattutto, finisco per rischiare la disidratazione per via della dovizia di lacrime. Indi per cui, oltre ad avere, naturalmente, gli occhi arrossati e gonfi come quelli di una rana dalmatina che ha appena fumato oppio, prosciugo letteralmente le risorse idriche del mio corpo. L’immagine che meglio rappresenta il fenomeno è – contro ogni aspettativa di sex appeal – quella della prugna secca,  raggrinzita e inaridita. Dal terzo giorno di malattia, la fortuna delle multinazionali dei prodotti in carta dipende in buona percentuale dai miei disturbi dell’umore. In quei giorni, infatti, il consumo massiccio di fazzoletti, veline, carta assorbente ne fa lievitare le quotazioni in Borsa. Ebbene, che dir si voglia, il rischio di un’inondazione, in virtù di tali fatti, è tutt’altro che fantascientifico. Tant’è che stamani, al telefono con un’amica – la quale, in vista di una visita pomeridiana, chiedeva se avesse dovuto portare il mocio – mi è tornato in mente un vecchio spot televisivo che nell’iperbole pubblicitaria faceva domandare a un gondoliere: “Chi gà sugà el canal?” Allora, in virtù della maggiore efficacia, ho prontamente replicato: “Meglio un deumidificatore!”

Insomma, negli ultimi quindici giorni mi sono ammalata due volte e, a prescindere dall’insana idea che un germe si sia innamorato di me, ho dovuto assumere una tale quantità di antibiotico che tra le cellule del mio corpo credo si stia consumando un olocausto. Sono una portatrice sana – ehm, si fa per dire – di morte.

Odio ammalarmi! Odio dover fare i conti con l’aspetto più fastidioso della SMA, l’esposizione a un rischio di complicazioni esponenzialmente maggiore a quello di molte altre persone. Odio – e quando dico odio intendo il sentimento nudo e crudo nella sua forma più caustica ed esiziale – dover restare chiusa in casa per evitare possibili aggravamenti, rinunciare ai sabato sera mondani, agli appuntamenti programmati da mesi. (Nel caso non ve ne foste accorti, sto declinando verso il vittimismo. La sola attenuante è la claritromicina).Orsola

Allora, mentre mi mangio il fegato – il che mi fa pure un po’ schifo – e mi compatisco, passo il tempo scrivendo e fantasticando di ricevere qualche notizia in grado di alleviare il peso della reclusione, di offrire al livido perire un’agognata liberazione. L’iconografia dei miei malanni di stagione mi rappresenta esangue, con il volto emaciato, prossima a spirare. In attesa della luce. Sicché attendo come nel Martirio di Sant’Orsola del Caravaggio gli astanti attendono la morte della santa.  E le notizie per arrivare arrivano:

una contravvenzione per aver sostato in un parcheggio con divieto di sosta 0-24

una lite tra due condomini per la pulizia delle scale, conclusasi con la decisione di fare pagare una quota più alta a me che abito a piano terreno e – per ovvi motivi – le scale non le uso mai.

il bollettino parrocchiale che mi invita a ricordare le date per le confessioni.

Come ho detto, le notizie per arrivare arrivano. Solo che non sono proprio come me le aspettavo…

La parola ha un corpo di donna…

ma spero non abbia il mio!

L’invito a parlare del mio romanzo, Nuda Pelle, in occasione della Fiera del Libro di Porto Viro, mi aveva gettata nel dubbio, sperduta come un’anguilla polesana tra le secche: accettare l’invito oppure no? Perché io so, con imbarazzante consapevolezza, di essere programmata per lo spegnimento dopo un certo periodo di inattività, proprio come un elettrodomestico in modalità “Risparmio Energetico”. E, di fatto, avendo scritto il libro diversi anni fa, alla promozione ne avrei preferito il suicidio assistito. Tuttavia, a dipanare i dubbi, conducendomi a una scelta, ci ha pensato lo spirito da negoziatore  – lo stesso che in tenera età mi portò a contrattare una lunga lista di benefici in cambio del mio silenzio circa le confidenze giunte alle orecchie durante i pomeriggi trascorsi da nonna, la quale gestiva un distributore di carburante, ed era solita farmi fare merenda seduta tra la pompa della benzina e quella della miscela. Sicché ho accettato, in primis per l’amicizia e la stima che mi lega a Marialaura Tessarin, Assessore alla C
Cultura del Comune, e, infine, perché ero riuscita a farle promettere che avrei potuto accennare al blog dopo la presentazione del libro, giungendo finalmente a parlare di Vita IndipendenteNuda-pelle-di-Tania-Bocchino_su_vertical_dyn

Così siamo partiti, i miei due assistenti ed io, in una fredda e piovosa mattina di novembre. La mia auto ha il vantaggio di contenere, in uno spazio limitato, un’ampia fetta di Universo, con la Via Lattea più qualche altra galassia superflua che spingiamo a forza dentro l’abitacolo, giusto per scongiurare di restar senza provviste (casomai giungessero pestilenze, carestie e altre calamita naturali). È risaputo, infatti, che durante il viaggio io consumo più zuccheri di quelli consumati da un ciclista in gara per la maglia rosa durante tutte le tappe del Giro d’Italia. Quindi, principio inalienabile è la presenza di cioccolato, biscotti con confetture varie, patatine, cracker al sesamo, al mais o alle olive purché senza sale in superficie, focaccine soffici con o senza farcitura, e infine bevande ipercaloriche che in caso di rimorso – il che avviene una volta ogni due anni bisestili – sostituisco con la versione light.

Comunque sia, intruppati tra le vivande, siamo giunti a destinazione. Parcheggiata l’auto di fronte alla locanda nella quale il Comune aveva riservato una camera per me e per i miei assistenti, ci siamo diretti verso l’ingresso. E lì, davanti a un’ampia vetrata, abbiamo trovato ad attenderci…l’uscio serrato! La locanda era chiusa, ma un foglio affisso alla porta invitava a comporre un numero di telefono per informazioni. Dopo una veloce ispezione sul retro dell’edificio, casomai vi fosse una seconda entrata, tentando financo di scassinare un paio di porte e di suonare un interruttore di corrente credendo fosse un campanello, abbiamo dovuto ammettere che la locanda era, senza ombra di dubbio, chiusa. Sicché ho preso in mano il telefono e chiamato il numero indicato: <<Buonasera, dovremmo pernottare, siamo fuori dalla locanda… >> E una voce maschile dal timbro caldo e gentile ha risposto senza esitazioni: <<Arrivo in cinque minuti! GRASSIE!>>.

Se mai ve ne fossero stati, non vi erano più dubbi che fossimo in Veneto!

D’altra parte, avevo già annusato una pallida certezza nel momento in cui, nei pressi di Verona, la mia assistente – che in più occasioni si era definita una che le inflessioni le assorbe come una spugna – aveva iniziato a chiamarmi “vecia”...E lo aveva fatto con la stessa nonchalance di quando, usciti dal traforo del Frejus, il suolo francese le aveva messo addosso una frizzante voluttà francofona, e da quel momento fino al ritorno in Italia era stato tutto un “Oui”, “Merci beaucoup”, “Excuse moi”.  poster-a3_08-ott-723x1024

Ma dicevo di Porto Viro e della presentazione del libro. L’appuntamento era dentro la sala conferenze della Biblioteca comunale, non molto distante dalla locanda, ma il navigatore, dopo la prima rotonda all’imbocco del paese, si era impuntato a dirci che ci eravamo smarriti nel nulla: metà mappa urbana per lui non esisteva. Quel bieco occhio satellitare ci dava per dispersi! Sicché ci siamo arrangiati, facendo della mia proverbiale faccia da culo una bussola infallibile. E siccome codesta faccia, che ci ha indicato la strada evitandoci di circumnavigare il globo, ha finito con l’infondermi tanta sicurezza, me la sono portata appresso per tutta la serata.

Tuttavia, il pubblico mi ha fatta sentire a casa, accogliendomi in modo del tutto inaspettato. Ho avuto la sensazione di essere in famiglia, benvoluta. La serata è proseguita finché alla domanda: <<Di che colore immagini il tuo futuro?>> a rispondere è stato lo stomaco con una confessione corale: <<Rosso pizza!>>. Allora, tra coloro che erano presenti in sala, è serpeggiato un mormorio, fino a che qualcuno, in un empito di compassione, ha esclamato: <<Marialaura, portala a cena!>>. A quanto pare, la fame mi precede…

Seduta!

La leggenda metropolitana vuole che da bambina io fossi mite e docile, ma nell’attribuirmi siffatto spirito di abnegazione non dà merito alle fantasiose turpitudini del seme di Satana che incarnavo pur se dipinta come la Madonna dell’Umiltà di Gentile da Fabriano. Ogni racconto della mia infanzia finisce sempre dove è iniziato: se comincia con me seduta su una poltrona, finisce con me seduta sulla poltrona; se comincia con me seduta su una sedia con il sedile sfondato e lo schienale sbilenco tenuto su da una vite arrugginita a cui basta un soffio di vento per farlo crollare, finisce con me seduta sulla stessa sedia che, pur se prossima allo sfascio, non ha subito il benché minimo danno e rimane lì a farsi beffe del rigattiere, stoica e orgogliosa come un veterano al pensionamento. In un modo o nell’altro, infatti, la narrazione giunge costantemente a millantare una mansuetudine al limite della letargia.

Tuttavia, com’è chiaramente comprensibile, la ragione per cui mi ritrovavano sempre nello stesso posto in cui mi avevano lasciata era ben lungi dal riflettere una presunta vocazione…anche perché, in quel caso, sarebbe stata d’uopo una visita psichiatrica o al limite un esorcismo.

Ebbene, quando mio padre e mia madre si rassegnarono a comprarmi una sedia a rotelle, io provai la stessa meraviglia di colui (o colei) che inventò la ruota. Ecchecazzo! Finalmente potevo arrivare al frigorifero a rubare la maionese all’ora del coprifuoco, ovvero quei sessanta minuti prima di cena nei quali rovinarsi l’appetito con un cracker era considerato vilipendio alla bandiera, figuriamoci ingurgitare un tubetto di maionese con la stessa foga con cui un asmatico si avventa sul broncodilatatore.

Ma dicevo dell’emancipazione, finalmente potevo muovermi a fianco degli altri e non più in braccio ad uno di loro! Non ci sarebbero mai più state scarpinate a cavalcioni su qualche dorso o fianco che si prestasse a farmi da marsupio; non avrei mai più dovuto gettare le braccia intorno al collo di qualcuno per attraversare il salotto o per uscire sul terrazzo, aggrappata a lui come un koala al ramo. Inoltre, crescendo ho potuto sviluppare la percezione di me in uno spazio ben più ampio del metro quadrato che occupava la sedia. Soprattutto non sono mai più stata dimenticata in qualche luogo…Screen-Shot-2014-05-11-at-9.05.54-AM seduta su qualche trabiccolo; nessuno è più venuto a recuperarmi in palestra dopo che, terminate le due ore di matematica, si era accorto che non ero tornata in classe alla fine dell’ora di educazione fisica, nessuno mi ha più dimenticata sull’autobus per poi venirmi a recuperare al capolinea, o scordata accanto alla salma della prozia Pia, che pia non era perché, a furor di popolo, pare che avesse gli sfinteri più famosi di tutto il paese e che riuscisse a fare certi giochi di prestidigitazione facendo sparire ortaggi e finanche grosse spole destinate al telaio,  senza alcuna distinzione tra filati pregiati e scarti di filatura….

La mia sedia con le ruote è stata il precursore della Vita Indipendente. All’epoca in cui la filosofia promotrice dell’assistenza indiretta autogestita non era ancora approdata in Italia, la seggiola in questione ha svolto un ruolo liminare a quello dell’assistente personale (a qualcuno non venga in mente, ora, di rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro per denunciarne la mancata assunzione!).

L’introduzione, sul piano sociale, della figura dell’assistente personale ha rappresentato un’importante evoluzione, il riconoscimento del valore dell’indipendenza.

Ecco perché reputo grottesco il fatto che nel nostro Paese non si investa più nella Vita Indipendente che nell’istituzionalizzazione, e si fatichi a considerare l’assistenza autogestita un modello di welfare migliore del ricovero nelle RSA*, giacché la Vita Indipendente è l’unico modo per garantire dignità e pienezza ad un’esistenza che altrimenti, confinata in una Casa di Cura, non si spingerebbe più in là della mera sopravvivenza. 

*Residenze Sanitarie Assistenziali

Marchette condominiali

Rincasi in un pomeriggio assolato e tiepido di fine ottobre; il riverbero del sole sul parabrezza rimanda il pensiero a taluni chiarori estivi abbacinanti che fan sentire rassicurati e, a dirla tutta, quasi letargici. Sulla strada davanti casa incontri l’amministratore del piccolo condominio in cui vivi. Lo saluti, lui ricambia il saluto in toni frizzanti saettando dentro l’auto parcheggiata accanto alla tua.

“Ti ho messo in buca il bilancio consuntivo delle spese dell’anno scorso!” annuncia, sorridendo, con fare allegro di ape che ha appena impollinato un campo di papaveri. E quel sorriso è talmente pregno di significati che nell’estrapolarne uno a caso chiunque saprebbe di avere una possibilità di errore che si aggira intorno al 99%, ma tu NO! Tu sei sicura senza alcun beneficio di alcun cazzo di dubbio che quel sorriso significhi “Tranquilla, i tuoi consumi sono i più bassi del quartiere” perché, in fondo, vivi sola, con un vasetto di yogurt ci fai merenda due giorni, riscaldi l’acqua per il tè nel microonde, accendi la lavatrice dopo il tramonto scegliendo il lavaggio rapido, e tutti i tuoi ospiti sanno che se dimenticano aperto il rubinetto dell’acqua subiranno pene corporali che spaziano dall’uso del cilicio alla flagellazione.

Così ti avvicini alla cassetta delle lettere con un’aria di beatitudine stampata sulla faccia, mentre un raggio di sole ti disegna un’aureola sui capelli. Recuperi il dossier, lo sfogli – lasciando riecheggiare tra le sinapsi un canto corale di voci bianche dal timbro cristallino – e quando leggi l’ammontare delle spese ti esce dalla laringe un accordo come di canto archetipico, una sorta di ode alla fertilità sintetizzata in un “Cazzo!” in odore di preghiera.  La tua morigeratezza è stampata a tre zeri, nero su bianco. Passi la prima mezz’ora cercando di convincerti sia un errore di stampa, poi un’altra mezz’ora tentando di convincerti sia un errore di calcolo, e infine trascorri un paio d’ore a passare in rassegna fantasiose alternative di suicidio quasi tutte svalutate da remunerativi propositi di meretricio. E sì, anche questo è Vita Indipendente! Tutto questo: dall’avere un debito elevato al cubo per aver usato il riscaldamento come un surrogato del sole tropicale, al pianificare qualche marchetta per estinguere le spese condominiali. Invero, anche questo è garanzia di pari opportunità! 

Tra il dire e il fare…ci sono anni di psicanalisi.

Capita che sopraggiunga la sera e ti colga in flagranza di reato con le mani nella crema di nocciole e un piede – nonché un paio di ruote – sull’orlo del precipizio. E talvolta succede che a scuoterti dalla mestizia di una giornata andata storta ci pensi la Provvidenza. Non quella di divina memoria che, nel migliore dei casi, è stata smantellata come uno di quegli sportelli sociali chiusi per mancanza di fondi. No, non quella. La Provvidenza di cui parlo è quella che ha consegnato ad Arthur Bloch il compendio della legge di Murphy, nello stesso modo in cui quell’altra – quella abolita – ha messo le tavole con i Comandamenti nelle mani di Mosè. Sicché, mentre ti compatisci sopra il barattolo mezzo vuoto e gli occhi gonfi di pianto ti fanno rimpiangere l’epoca storica in cui  potevi vendere le lacrime ad un’orda di devoti in cerca di reliquie, e oggi,  invece, tuttalpiù puoi venderti su internet un paio di mutande intrise di umori, ecco che avviene il miracolo. Infatti, come un segno del destino, ricevi un messaggio da un perfetto sconosciuto che con afflato poetico e toni aulici ti scrive:”Io una trombatina con te la farei volentieri!“.

Allora, in quel preciso istante, mentre sollevi lo sguardo dalle tue ginocchia e ti accorgi che è calata la notte e il cielo si è fatto nero come un catafalco rovesciato sopra le case, ti sale dalle interiora la proverbiale carogna che, come sempre, si presenta come un rigurgito di parole. Allora parli, armata fino ai denti e pronta ad uccidere, solo che parli da sola perché lo sconosciuto non ti ha lasciato un numero di telefono, e se anche te l’avesse lasciato ora sarebbe in bagno a farsi una sega.

Di solito la sincerità la apprezzi molto, oltretutto la sua ti ha permesso di capire senza troppe seghe mentali che quello che vuole conquistare non è il tuo cuore, così non devi prenderti la briga di tirarlo a lucido e confezionarlo nella speranza che il dono sia gradito. Tuttavia le parole premono da sotto il costato come una rivelazione che va enunciata e udita:”Devo ammettere” qui, se non ricordo male, ho fatto una pausa per prendere fiato:”Devo ammettere che tra tutti i modi verbali hai scelto quello corretto, poiché non potresti mai ambire ad un indicativo futuro, né tantomeno presente, nemmeno se – e qui il congiuntivo è d’obbligo – fossi così scaltro da dirmi che la tua era soltanto una provocazione e che il tuo reale desiderio è passare una notte intera a tenermi la mano, disteso al mio fianco. Cazzo! Io volevo poesia e tu volevi darmi…ecco…per l’appunto, quello. Ma almeno potevi edulcorarlo, farlo sembrare meno cazzo e un po’ più amore, millantare come fanno tutti, cazzo! (E ridaje).”

Respiri e intanto ti assale il dubbio che lo sconosciuto non sia realmente sconosciuto, e se avesse un nome e questo fosse MG allora andrebbe bene anche il cazzo senza la corona d’alloro intorno. Ma taci, ché intanto la mestizia si è dileguata e pensi tra te e te che, in fondo, poteva andarti peggio.

Fantasie bondage.

Torino, via Po. Dentro un famoso Caffè. Inizio a flirtare con il cameriere che intanto ci prova con tutte e fa del mio un passatempo senza dolo; quella che si consuma dentro la pasticceria travestita da pub è, quindi, pura troiaggine con l’immunità.

unless-you-puke-faint-or-diet-keep-goingSenza girarci attorno – ché avevo appena affrontato un avvolgimento da pole dance intorno alla gamba del tavolo per infilarmici sotto, perciò nell’inciucio potevo pure essere stringata – dopo la crostata alla crema gianduia, finisco con il ritrovarmi in bocca una nuda e cruda pratica bondage. E non si creda che siam giunti a cotanta intimità in pubblica piazza! Il mio, ça va sans dire, è un mero riferimento metaforico, signori.

Insomma, tra un’ordinazione e un’allusione lui azzarda:”Adoro il bondage: mi piace sia essere legato che legare!

Perfetto, con ne non hai nemmeno bisogno di una corda: non mi muovo, come mi metti resto.

Credo di averlo ucciso.

L’emivita della libertà.

Le serate migliori sono quelle che trascorro nella stanza con l’affresco del rito dionisiaco, alla luce di una candela. E in cui scrivo, accanto a una tazza di tè, nel silenzio della casa.

Quanto durerà questo stato di benessere? Ho sempre voluto vivere così, poter decidere delle mie notti.

L’indipendenza, qui e non altrove, è un contratto a tempo determinato. Qui si è precari verso ogni respiro; verso ogni scelta che contempli un domani. Ogni giorno è una rivendicazione d’indipendenza, un profluvio di parole contro l’oppressione di un incubo.

Quanto può durare la libertà?

L’indipendenza sa di cioccolato.

Vi siete mai chiesti che sapore abbia l’indipendenza?

Sa di cacao mescolato al latte e servito fumante dentro una tazza di maiolica bianca; sa di crema Chantilly e di panna montata accomodate dentro un bignè ricoperto di zucchero a velo. E forse sa anche di crema al cioccolato e di fragole affondate in due soffici strati di pan di Spagna. Forse sa di frutti rossi e di zenzero messi in infusione dentro una tazza di acqua rovente. Io so per certo – senza presunzione – che l’indipendenza ha il sapore della cioccolata calda e dei bignè. E non ha alcuna importanza – il sapore resta lo stesso – se non la si gusta con il cucchiaino, ma con una cannuccia, sorseggiandola anziché farla scivolare sulla lingua, sciogliendola sul palato.

Capita che tu scopra quale ne sia il sapore una domenica pomeriggio, durante una passeggiata in città, dopo aver attraversato la via porticata che per un giorno è la via dei Portici di Carta. Tuttavia, mentre cammini tra le bancarelle piene di libri, facendoti largo tra la folla che odora di vaniglia, di bergamotto, di cuoio, di menta, di lana, di tessuti acrilici e di plastica, non avverti la benché minima intuizione di ciò che stai per scoprire. Inizi ad intuirlo soltanto quando svolti nel corso di regale memoria, di fronte alla stazione ferroviaria, e lo percorri avida di profumi di pasticceria fino ad averne gli occhi pieni di soffici richiami. E lì, specchiandoti sulla vetrina del famoso Caffè, dai forma all’intuizione. Soltanto una volta entrata e aver preso posto a uno dei tavolini della sala decorata secondo lo stile dell’Art Deco, però, ne scopri – finalmente – il sapore.

Sei uscita di casa una domenica pomeriggio insieme alla tua assistente che, guidando la tua auto, ti ha accompagnata in città. È un pomeriggio d’autunno con il cielo coperto e l’odore delle caldarroste nell’aria. Hai scelto di fare una passeggiata, non hai avuto dubbi sulla destinazione. Hai scelto perché potevi scegliere. L’indipendenza ha il sapore del cacao mescolato al latte e servito fumante, delle paste con la crema Chantilly e la panna montata, spolverate di zucchero a velo. E credo, con una certa convinzione, che la libertà abbia lo stesso sapore.

Platti
Turin. At the pastry shop, Platti.

IL CARNEVALE DI GERTI

Il prossimo viaggio è deciso, ma passerà un po’ di tempo prima che prepari la valigia. Il tempo per dare il benvenuto all’autunno, in questo taglio di terra che abito da poco più di un anno.  Oggi constatavo la rara bellezza di queste giornate cupe.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro fa spogli i suoni e ne deriva i sorridenti ed acri fumi che ti compongono il domani:ora chiedi il paese dove gli onagri mordano quadri di zucchero alle tue mani e i tozzi alberi spuntino germogli miracolosi al becco dei pavoni.

E chi se ne frega se le ruote s’inzaccherano negli acquitrini e disegnano figure astratte sul pavimento, se, per uscire di fretta, ho avvolto le spalle con un cencio e più nessuna apparenza ha potuto mascherare lo spirito randagio; chi se ne frega se rabbuia tra i vicoli e dentro le case, e se lui tace con lei – ed io, complice – non le dà il peso della verità, non mente, semplicemente non dice che aspetta la pioggia per venire a farmi visita in queste stanze buie.

Ricordo una poesia di Montale.

IL CARNEVALE DI GERTI

“Se la ruota s’impiglia nel groviglio
delle stelle filanti ed il cavallo
s’impenna tra la calca, se ti nevica
sui capelli e le mani un lungo brivido
d’iridi trascorrenti o alzano i bimbi
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio ed i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume,
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d’aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia – hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l’anno tranquillo senza spari.

                                                          Ed ora vuoi sostare dove un filtro
                                                          fa spogli i suoni
                                                          e ne deriva i sorridenti ed acri
                                                          fumi che ti compongono il domani:
                                                          ora chiedi il paese dove gli onagri
                                                         mordano quadri di zucchero alle tue mani
                                                         e i tozzi alberi spuntino germogli
                                                         miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh il tuo Carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l’urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l’ora
che il Gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È Carnevale
o il Dicembre s’indugia ancora? Penso
che se tu muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori…)

                                                     E il Natale verrà e il giorno dell’Anno
                                                     che sfolla le caserme e ti riporta
                                                     gli amici spersi, e questo Carnevale
                                                     pur esso tornerà che ora ci sfugge
                                                     tra i muri che si fendono già. Chiedi
                                                     tu di fermare il tempo sul paese
                                                    che attorno si dilata? Le grandi ali
                                                    screziate ti sfiorano, le logge
                                                    sospingono all’aperto esili bambole
                                                    bionde, vive, le pale dei mulini
                                                    rotano fisse sulle pozze garrule.
                                                    Chiedi di trattenere le campane
                                                    d’argento sopra il borgo e il suono rauco
                                                    delle colombe? Chiedi tu i mattini
                                                    trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile,
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato
pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all’esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s’aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco,
quella che additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.

(Eugenio Montale)

L’irrequietezza di zingara.

Il racconto non può dirsi concluso finché non si spinge dai rigidi ingranaggi di una giostra oltre le rive della Saone, ben oltre lo spartiacque che separa l’odierna struttura urbana dalle vecchie mura della città.

L’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore.

Ci eravamo lasciati in Place de la Republique ad osservare i bambini su una giostra, sotto un cielo cupo e minaccioso. Ciò che non avevo detto era che quell’orizzonte grigio incorniciava la città, ne era lo sfondo perfetto. Il contrasto con le sfumature rosa e ocra dei palazzi, con le vernici rosso vivido dei portoni, con il verde scuro dei dehors ne facevano una condizione imprescindibile.

Attraversando Rue de Brest, mentre quest’intuizione cromatica si andava facendo certezza, Israr, con una sicumera inattesa, si era lasciato sfuggire di bocca il proposito di trasfervisi dopo la laurea in Ingegneria. E aveva continuato a ripeterlo a voce alta sopra il ponte che da Rue Grenette conduce alla Vieux Lyon. Oltrepassato il ponte, invece, era tornato a blandire la fantasia erotica d’oltralpe, arricchendola di dettagli dal fascino rinascimentale. Stefania ed io, nel frattempo, avevamo trovato una tabaccheria ed eravamo entrate per acquistare un adattatore di presa elettrica, ché le prese dell’hotel non erano compatibili con il caricabatterie della mia carrozzina (trascinarla lungo le strade lastricate di porfido era un’eventualità da scongiurare con ogni sorta di ammennicolo apotropaico umanamente concepibile). Sicché, disposte a pagare una cifra esagerata per un pezzo di plastica, eravamo uscite dal negozio con il nostro agognato bottino e con 10 euro in meno nel portafoglio.

Davanti a noi, uno stretto vicolo invitava a percorrerlo. Proprio come i bambini di poco prima ci incuriosiva e affascinava la traiettoria; quell’incanalarsi della città in uno spazio angusto risucchiava i nostri pensieri, monopolizzandoli.  È stato lì, di fronte all’insegna luminosa di un locale che prometteva spettacoli per adulti che il senso del viaggio ha iniziato a prendere forma: l’irrequietezza di zingara faceva eco al sano desiderio di prendersi il piacere dove capitava, all’occorrenza, senza sensi di colpa, né vincoli geografici. Poteva essere una città da esplorare, una strada mai percorsa o una stanza decadente in cui giocare all’amore. Non esisteva – dubito sia mai esistito –  un modo giusto o sbagliato per farlo; si dovevano soltanto mettere in fila i passi, uno dopo l’altro, con voluttà…

they say freak, I hear trick